mercoledì 2 luglio 2014

Cinema # 4 - Soul Man

Mark: Look, i'm really not that good! 
Coach: Well, have you played before? 
Mark: Yeah, like on the playground.

"Soul Man" (1986) 



"Soul Man" è un film di metà anni ottanta, una commedia politically scorrect senza però essere troppo feroce, anzi a vederlo adesso sembra piuttosto innocuo.
La trama è semplice, Mark è un rampollo bianco che vuole entrare ad Harvard, il padre però decide di tagliargli gli alimenti, il ragazzo (interpretato da C. Thomas Howell, all'epoca giovane promessa del cinema americano) scopre che la prestigiosa università concede ogni anno una borsa di studio per le minoranze di colore, così decide di far finta di essere nero. Prende pastiglie abbronzanti, si cotona i capelli, cambia modo di parlare. Ovviamente inizia a subire tutta una serie di stereotipi sugli afro americani, tipo viene scelto per giocare a basket (per scoprire che è un brocco) oppure gli fanno suonare jazz, insomma cose del genere.
C. Thomas Howell e Rae Dawn Chong

Il ragazzo però non è il solo a correre per la borsa di studio, "contro" di lui c'è una dolce ragazza mulatta (Rae Dawn Chong) che lavora part time e avrebbe tutto il diritto di vincere la borsa di studio, invece il Consiglio sceglie Mark. Nel frattempo però tra i due scoppia l'amore, e il finto "afro-americano" ammette di essere bianco e dichiara il suo amore alla bella Rae Dawn (oltre a darle i soldi della borsa di studio).

Un happy end che fa tutti felici e che rese il film un discreto successo ai botteghini.

Quando frequentavo le scuole superiori, la professoressa d'Inglese, per incentivare l'uso di quella lingua, ci propose dei "Pen Friends", cioè la possibilità di contattare delle persone sconosciute attraverso delle lettere (vere, quelle di carta), qualcosa che adesso, al tempo dei social, sembra medioevo.

Per non smentirmi scelsi come "Pen Friend" una ragazza Giamaicana. Ci scrivemmo per anni, io sempre da Venezia, lei inizialmente da Saint Ann, Jamaica, poi da Washington dove aveva raggiunto la madre e infine da Chicago, dove abitava la sorella.

Fu anche per quello che inclusi questa città nel mio itinerario, così, il giorno dopo aver visto il monumento di Picasso, mi recai alla stazione centrale, snodo principale della metropolitana di Chicago. Chiesi al bigliettaio la linea da prendere per andare a Calumet City, la zona dove Eunel, questo era il nome della ragazza Giamaicana, abitava. 

Per chi non la conoscesse, Calumet City è un quartiere abbastanza famoso di Chicago, nel film "The Blues Brothers" è proprio li che si trova il negozio di strumenti musicali di Ray Charles, ed è anche uno dei quartieri più "neri" degli USA, per trovarne di simili devi andare a Brazzaville, nella Repubblica del Congo. 

Ray Charles tra i due fratelli Blues

Il tipo mi guardò strano, sembrava di origini europee, probabilmente irlandesi, mi chiese se fossi davvero sicuro di voler andare proprio lì. Gli risposi che in quel quartiere abitava una mia amica, lui mi disse che forse non era il caso di andarci, non da solo almeno.

La gente in coda intanto iniziava a lamentarsi, così feci il gesto del "time out" al bigliettaio e cercai il telefono più vicino, ma Eunel non rispose.
Abbandonai l'idea di andarci quel giorno, ogni tanto, quando trovavo una cabina provavo a chiamarla, ma fu solamente verso sera che riuscii a parlarci, ci accordammo per vederci il giorno dopo.

L'indomani nel primo pomeriggio mi recai di nuovo alla fermata della Metro, mi misi in coda allo sportello e arrivato il mio turno chiesi un biglietto per Calumet City. L'impiegato alzò lo sguardo ed esclamò "You, again!". "Of course" risposi e aggiunsi che questa volta non mi avrebbe fatto cambiare idea.

Salii nel vagone della metropolitana con un sorriso, pensai che fosse simpatico che il bigliettaio di una delle più trafficate stazioni del mondo si ricordasse di me a 24 ore di distanza. Poi mi si gelò il sangue, e realizzai che non si trattava di una bella notizia, non credo che il tipo avesse una memoria fenomenale, semplicemente Calumet City non era una delle mete preferite dai turisti bianchi e forse ero stato l'unico ad avergli chiesto un biglietto per quella destinazione negli ultimi mesi.

In ogni caso mi ero preparato ad eventuali momenti di tensione a sfondo razziale,  avevo il polsino di Yannick Noah che sbucava dalla manica del giubbotto e sotto un paio di camice indossavo una t-shirt con l'immagine dell'Africa e un pugno che usciva dal Sud Africa, sanguinante nell'azione di rompere una catena, il tutto completato da una frase di Gil Scott-Heron che diceva "I hate it when the blood starts flowin', But I'm glad to see resistance growin'", come se a quattro gangster neri strafatti di crack importasse qualcosa dell'Apartheid.

Mano a mano che il treno si avvicinava a Calumet City i passeggeri cambiavano, ad un paio di fermate dalla destinazione mi guardai in giro, ero l'unico bianco del vagone, ma ormai ero arrivato.

Trovai la casa della mia "Pen Friend" con una certa facilità, bussai alla porta e uscì un ragazzo poco più grande di me, le chiesi di Eunel, lui mi guardò strano e disse qualcosa tipo "Doyo min Iunil?",  il tipo parlava con un fortissimo accento Giamaicano, sembrava il DJ Scotty della canzone "Draw your brakes".

Io non capivo lui, e lui non capiva me. Così tirai fuori una lettera che Eunel mi aveva scritto, allora lui esclamò: "Mi see men, yoluking foh Iunil", e girandosi verso l'intero ulrò "Iunil, com ovah!".

Eunel, anzi, Iunil, arrivò alla porta, diede un'occhiataccia al tipo (che scoprii dopo essere suo cognato) e mi regalò uno splendido sorriso, invitandomi ad entrare.

Arrivai in salotto giusto in tempo per sentire la musica dei titoli di coda di "Soul Man", seduti in divano davanti alla TV c'erano un paio di persone, e sdraiato a terra un bambino di 5 o 6 anni, il figlio della sorella, con un'inquietante somiglianza con Arnold.

L'imbarazzo era tridimensionale, probabilmente ero il primo caucasico ad entrare in quel soggiorno, Eunel intuì l'empasse e mi invitò a salire nella sua stanza, nemmeno il tempo di illudersi che chiamò a se, prendendolo per mano, il nipotino.
La stanza da letto era una delle più kitch che avessi mai visto, copriletto ghepardato, peluche ovunque, sue foto appese al muro con effetto flou anni '70. Ma non importava, mi bastava vederla in carne ed ossa (molta più carne ora che ci ripenso), parlammo del più e del meno, di quello che avevo fatto a Los Angeles, le cose che avevo visto durante il mio viaggio in autobus. Per tutto il tempo il bambino mi guardò con gli occhi sgranati e la bocca aperta.

Essendo Ottobre avanzato le giornate erano molto corte, infatti fuori era già buio, decisi che era arrivato il tempo di prendere il treno di ritorno.

Eunel mi accompagnò alla porta, sempre seguita dalla versione Giamaicana di Arnold, poi uscì sui gradini con me, lanciai uno sguardo piuttosto eloquente al nanetto che pensò bene di fermarsi sulla soglia della porta.

Era buio, freddo, sapevamo che probabilmente non ci saremmo mai più rivisti, ci scambiammo un lungo bacio. Quando le nostre labbra si staccarono mi accorsi che "Arnold" mi stava fissando, di nuovo. Poi per la prima e ultima volta sentii la sua voce quando esclamò:

"You are not a white boy, you are Soul man!"

Sorrisi, avrei voluto spiegargli un paio di cose, ma quell'età c'è poco da spiegare, poi si sa, come una volta lessi scritto su un muro "solamente i matti e i bambini dicono la verità, i matti li mandiamo in manicomio e i bambini a scuola".

In ogni caso, e per fortuna, era troppo buio per una sfida a basket.







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