giovedì 29 maggio 2014

Musica # 13 - Last Goodbye

"This is our last goodbye
I hate to feel the love between us die
But it's over
Just hear this and then i'll go
You gave me more to live for
More than you'll ever know"

 Last Goodbye - Jeff Buckley


Tra i miei 16 e 26 anni mi sono spesso trovato lontano da casa, per settimane o addirittura per mesi.
Ogni volta che ritornavo riuscivo ad intravedere i micro cambiamenti delle persone e delle cose che mi stavano attorno.

Essendo a Venezia le "cose" non cambiano come negli altri posti, ma le persone si, per quanto speciali i Veneziani invecchiano, si ammalano e muoiono, esattamente come tutte le altre persone, ad eccezione di Javier Zanetti e Doctor Who, che però mi dicono essere personaggi di fantasia.

Di ritorno da un'assenza piuttosto prolungata incrociai una mia vicina, una signora che conoscevo da sempre. Mi fermai per salutarla e le chiesi come stava il marito.
L'espressione del suo viso mi fece intuire che avevo appena calpestato una merda di cane XXL, indossando delle infradito, con la suola bassa.
La signora con la voce incrinata dall'emozione mi disse che il marito era morto qualche mese fa, evidentemente quando io ero all'estero, mi sentii piuttosto a disagio (metafora dell'infradito) e mi scusai.
Lei mi mise una mano sul petto, all'altezza del cuore, e mi disse una delle cose più tristi e commoventi che abbia mai sentito.
Mi guardò negli occhi e con un filo di voce sospirò: "Non ti preoccupare. Vorrei essere al tuo posto, nel tuo cuore mio marito ha vissuto 4 mesi di più." Feci un sorriso di circostanza e me ne andai, le infradito erano sparite ma al suo posto avevo un groppo in gola.

Molto tempo dopo passai davanti ad un'edicola e vidi la copertina di una rivista musicale con il bellissimo ritratto di un ragazzo, il suo nome e due date, 1966-1997.

Capii da quell'immagine che Jeff Buckley non c'era più. Era Luglio inoltrato, lessi dall'articolo che il suo corpo era stato restituito dalle acque del Mississippi poco dopo inizio Giugno, a 6 giorni dalla sua scomparsa.



Jeff Buckley si trovava a Memphis da qualche settimana, dove stava scrivendo del materiale nuovo, la sua band doveva arrivare in quei giorni per entrare in studio e finalmente registrare il seguito dell'incredibile primo album "Grace".

Nella mia testa il buon Jeff aveva passato anche quelle ultime 6 settimane tra piccoli pub, dove sicuramente aveva improvvisato qualche concerto, e lo studio di registrazione. In cuor mio, come era successo con il mio vicino, aveva continuato a vivere qualche settimana in più.

Aspettavo con ansia il suo nuovo lavoro, avevo letteralmente consumato il CD di "Grace" e anche quello di "Live at Sin-é", l'EP che la Sony-Columbia Records aveva fatto uscire come disco d'esordio e che io avevo recuperato nel frattempo.

Sarebbe stata questione di settimane, e avrei finalmente ascoltato il suo nuovo album. E invece no, invece il giovanotto aveva avuto la brillante idea di fare un bagno di notte, interamente vestito, nelle buie acque Wolf River, un affluente del Mississippi. Molti pensarono ad un suicidio involontario, ad un modo per liberarsi dalle pressioni di una casa discografica che già vedeva per lui un futuro costellato di successi e dischi d'oro. 

Nella nota scritta a mano che compare nel postumo "Sketches for My Sweetheart the Drunk ", fatto con il materiale che aveva registrato a Memphis, Jeff Buckley dice questo:
"I don't write my music for Sony, I write it for the people who are screaming down the road crying to a full-blast stereo. There is also music I'll make that will never-ever-ever be for sale. This is my music alone, this is my true home; from which all my life will spring untainted and unworried fully of my own body".

Jeff con la madre
Probabilmente tra la musica che Jeff non avrebbe mai voluto vendere c'è anche qualcuno dei brani che escono negli anni successivi la sua scomparsa.
In mancanza di moglie e figli, è la madre di Jeff Buckley che si occupa del suo lascito artistico, recupera con le buone o con le cattive le varie registrazioni Live, e fa  uscire un paio di CD decisamente discutibili dal punto di vista tecnico, ma dei piccoli tesori per tutti i suoi fan rimasti orfani, come me.

Ad un certo punto escono anche la versione dopata di  "Live at Sin-é" e di "Grace", con brani inediti e versioni alternative che, se le acque del Mississippi non avessero inghiottito Jeff, probabilmente non sarebbero mai state pubblicate.

Provate ad ascoltare "The Other Woman", oppure la versione live di "If You Knew" o la splendida cover di "Sweet Thing" di Van Morrison, per capire dove Jeff Buckley riesce a portarti, e pure quando canta in un Parsi (o pashtun) approssimativo "Yeh Jo Halka Halka Saroor Hai" la sua voce ti tocca il cuore.

Per anni ho rincorso qualsiasi autore che di volta in volta i critici avvicinavano a lui, come chi cerca nelle passanti lo sguardo dell'amata perduta per sempre, per poi accorgermi che era solamente un'illusione, e finire per riascoltare per l'ennesima volta "Grace".

Ma se la morte prematura di Jeff Buckley mi ha confermato che dio non c'é, o almeno un dio con un gusto musicale decente, ogni volta che lo sento cantare, mi viene il dubbio che forse gli angeli esistano per davvero.

Era oggi, il 29 Maggio, quando il Wolf River decise di tenere tutto per se, e per sempre, il talento di Jeff Buckley.
   

domenica 25 maggio 2014

Baludrome # 1 - Shizo Kanakuri

Appena iniziato Il Poltronauta, avevo chiesto ad un mio amico di scrivere dei post. Lui da subito ha iniziato a mandarmene, almeno uno a settimana. Poi ho realizzato che, per quanto belli, giustamente non li sentivo miei, e restavano un corpo estraneo.  
Tra un po' uscirà il suo di blog, "Baludrome" e questo, che un po' uso come post "filler",  è il primo post che ha scritto, il ponte ideale tra i due blog, pubblicato con colpevole ritardo, non ha caso si chiude con la frase "Meglio tardo che mai". 

Buona lettura!


Questa è la storia di un altleta giapponese,  che corse la maratona alle olimpiadi di Stoccolma, un caldo giorno d'estate svedese, e che poi tutti dimenticarono.


Stoccolma 1912, Olimpiadi. Nazioni partecipanti: 28.

Per la prima volta c'è anche il Giappone con ben due atleti, uno di questi sarà il protagonista della nostra storia. Lui è Shizo Kanakuri, giovane studente universitario con la passione della maratona; detiene il record mondiale della distanza, il primo corridore giapponese ad imporsi a livello internazionale.


Shizo Kanakuri alla cerimonia d'apertura
In patria è un eroe e l'università di Tokyo organizza una mega raccolta fondi per permettere al giovane di poter praticare ai giochi. La somma raccolta è di 2000 yen, una cifra paragonabile a 154000 euro di oggi!!!! Il giorno 16 maggio della partenza viene salutato alla stazione dei treni come un eroe di guerra. Arriverà a Stoccolma diciotto giorni dopo, dopo un viaggio di stile fantozziano.
Il 14 luglio, alla griglia di partenza, il nostro piccolo giapponese è tra i favoriti. Le nuove rigide regole impongono che gli atleti non potranno usufruire di punti ristoro, pertanto niente zucchero e niente acqua.

Quel giorno vi sono oltre 32 gradi, quantomeno strano in Svezia! Eppure il piccolo giapponese sorprende tutti restando in prima posizione per oltre 20 km, imponendo un ritmo proibitivo per molti altri atleti, fino a che un affondo del sudafricano MacArthur lo scalza in seconda posizione. La gara procede senza particolari episodi, anche perchè non c'è diretta televisiva, e gli aggiornamenti arrivano a singhiozzo.

All'arrivo, dopo altre 2 ore dopo, il primo a presentarsi sarà proprio il sudafricano mentre tutti i tifosi assiepati aspettano di veder arrivare il giapponese in seconda posizione. Invece non è così, alla spicciolata arrivano tutti i superstiti della gara, tranne Kanakuri. Purtroppo la maratona si era già presa la vita dell'atleta portoghese francisco Lazaro, colpito da una terribile insolazione; la macchina della sicurezza svedese si mette in moto, partono le ricerche, ma del piccolo maratoneta nipponico non si hanno tracce: non ritirato ma scomparso.

Il suo nome entra nei registri delle persone scomparse della polizia svedese. Eppure le voci di sue sporadiche apparizioni in vari punti del paese continuano a sussegguirsi che lo danno incanutito a chiedere informazioni per lo stadio, leggende urbane della peggior specie. 
Passano gli anni, 55 per la precisione, quando un giornalista legge di questa storia e ne vuole approfondire.
Compie ricerche dettagliate, consulta tutte le fonti immaginabili, fino ad arrivare ad una sensazionale scoperta: Kanakuri non è scomparso nel nulla, è nel suo paese natale Tamana, dove fa l'insegnate di geografia. 

Raggiunto dal giornalista spiega l'accaduto: all'altezza del 30 km viene colpito da malore e si avvicina ad una casa lungo il percorso dove gli abitanti gli danno da bere un bicchiere di succo di lampone, viene invitato a sedersi in veranda per un minuto, che si rivela fatale poiché si addormentare per oltre 10 ore, Al risveglio, per evitare la vergogna, decide di partire in incognito e tornare a casa.


Shizo Kanakuri finalmente all'arrivo, felice


Dopo questa incredibile scoperta, l'associazione olimpica lo invita a tornare a Stoccolma per finire quell'ultimo tratto di strada che mancava, a 77 anni suonati registra il più lungo tempo di percorrenza della maratona 55 anni!

MEGLIO TARDI CHE MAI.

giovedì 22 maggio 2014

Spazio 1999

A giant leap for Mankind... It's more like a stumble in the dark. 
Com. John Koenig

Ognuno di noi ha una o più date tatuate nella memoria. In alcuni casi quella data è legata ad avvenimenti personali: la nascita di un figlio, il giorno della laurea, cose del genere. Spesso però si tratta di un giorno epocale per tutti, ad esempio chiunque abbia assistito allo sbarco sulla Luna si ricorderà di certo cosa stava facendo in quel momento; sicuramente chiunque ti può dire dove si trovava quando le Torri Gemelle furono abbattute l'11 Settembre. Oppure semplicemente, tra tutti i capodanni festeggiati, quello che ci si ricorderà sempre sarà quello del 2000, almeno quella parte vissuta da sobri. 
Certe date invece si aspettano per anni, e quando finalmente arrivano t'accorgi che forse era l'attesa, come al solito, la parte più bella. Il giorno nel quale la Luna si staccò dalla Terra, il 13 Settembre 1999, mi ricordo esattamente dov'ero e cosa stavo facendo.

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Aspettavo quella data da circa metà anni settanta, da quando cioè la RAI trasmise il primo episodio di Spazio 1999. Erano passati pochi anni dalle missioni Apollo, e sembrava logico che a breve l'uomo avrebbe costruito una base sulla Luna. Questo avrebbe anche permesso la soluzione di un problema che assillava l'umanità in quegli anni, e anche adesso, cioè dove stoccare le scorie radioattive. Detto, fatto. Bastava trasportarle sulla Luna (a tutt'oggi mi sembra ancora l'idea migliore).  
Così alla soglia del nuovo millennio avevamo una colonia umana sulla Luna e azzerato (o quasi) le scorie nucleari sulla Terra. Per quanto mi riguarda la storia poteva già finire così, invece i coniugi Gerry e Sylvia Anderson, i produttori della serie, decisero di rendere il tutto più interessante facendo esplodere l'enorme cava di stoccaggio, come fosse un gigantesco raggio propulsore. Pur trovandosi nel "dark side of the moon" l'esplosione non spinge la Luna verso la Terra, come sarebbe stato logico, bensì la lancia verso lo spazio profondo, facendo della base lunare una zattera alla deriva nell'Universo. 

A capo dei sopravvissuti c'è il Comandante John Koenig, interpretato da Martin Landau, all'epoca nemmeno cinquantenne, e una serie di personaggi più o meno di contorno, vestiti, gli uomini, con pantaloni a zampa d'elefante e magliette acriliche tendenti al beige, da irritazione cutanea istantanea, e le donne (alcune) in minigonne e stivali, direttamente da Carnaby Street. Anche il design della base è logicamente molto al passo con (quei) tempi e ricorda gli arredi in voga all'epoca, tipo quelli del finlandese Eero Aarnio. 
Nonostante l'approccio più europeo, a partire dal comandante meno macho e meno cowboy di quanto non fosse il capitano Kirk/Shatner, e la visone più filosofica introspettiva, la serie ricorda Star Trek. Incontri con mondi alieni, situazioni pericolose, affrontate di volta in volta con intelligenza e autorità. Della famosa serie americana Spazio 1999 ha sicuramente la cosiddetta "Sindrome di Star Trek": ogni volta che allo staff fisso viene affiancato un personaggio nuovo questo di sicuro non mangia il panettone, cioè schiatta prima della fine dell'episodio. L'unica eccezione della quale mi ricordo è Maya, un'aliena piuttosto avvenente con delle sopracciglia a pois, evidentemente troppo bella per essere eliminata dopo un solo episodio.

 

La serie fu creata con una cura maniacale dei particolari dalla produzione italo - inglese (nella prima serie c'era anche la RAI), a partire dai modellini delle "Aquile", cioè le veloci navicella spaziali, fino ad arrivare agli effetti speciali, davvero straordinari per l'epoca. Merito soprattutto dei due Anderson, che non a caso avevano prodotto delle serie Sci-Fi cult fin dagli anni sessanta, come Stingray, Thunderbirds (entrambe totalmente girate con marionette e modellini) e UFO. 
La serie ebbe un buon successo in Inghilterra e da noi, ma non sfondò mai a livello mondiale, rimanendo un serie per soli cultori e finendo dopo 48 episodi. Dunque, il 13 Settembre 1999 era arrivato, per davvero questa volta. I creatori della serie non ne avevano azzeccata una: niente base lunare, niente deposito di scorie radottative, i pantaloni a zampa d'elefante erano di fatto scomparsi e le minigonne con gli stivali avevano preso altre strade, diciamo tangenziali. Io, come ogni lunedì in quel periodo, mi stavo cambiando tra tavoli di ping-pong e sedie per la solita partita di calcetto. Il campo era quello del patronato nel quale avevo passato gran parte dell'adolescenza, irregolare, scarsamente illuminato, ma almeno con le reti alle porte. 

Mentre indossavo la solita maglietta sdrucita, con un sorriso in pieno stile Stregatto, dissi al mio amico (lo stesso che aveva regalato l'abbonamento della Settimana Enigmistica al padre) che questo era il giorno che aspettavo da anni, dissi che finalmente il 13 Settembre 1999 era arrivato! Lui mi guardò come si guarda una crepa sul muro mentre piove. Gli spiegai che era così che iniziava Spazio 1999, gli ricordai di Martin Landau, le Aquile, la sigla, tutto quanto. Niente, nessuna reazione, se non insulto a denti stretti con una parola che faceva rima "muro" oppure con "mulo", non ricordo.

 

Però in quell'ora abbondante di calcetto, mentre correvamo, o meglio, mentre passeggiavamo velocemente per il campo, sono sicuro che anche lui pensò al Comandante Koenig e a Maya, magari solamente per un attimo. Io invece mi immaginai bambino, anzi ad un certo punto, forse a causa di una crisi cardio-respiratoria, mi vidi seduto a bordo campo, con le mani in faccia e un velo di disappunto, a guardarmi ormai adulto sudare le ultime tossine dell'adolescenza, rincorrendo un pallone assieme ad altri adulti. 

Proprio il giorno nel quale la Luna avrebbe dovuto staccarsi dall'orbita terrestre. Che fine aveva fatto il Comandante Koenig? Che ci facevamo li? Che ne era stato del mio futuro? Niente astronavi, niente successo, niente capelli, niente progetti faraonici. Io non sapevo che rispondere, semplicemente mi ero arreso alla vita, con un pallone e due porte per cercare di essere felice, perché alla fine ognuno cerca la felicità in qualche modo, anche gli adulti. 

Avrei potuto raccontargli della filosofa tedesca Dorothee Sölle, quando un giorno un giornalista le chiese: "Come spiegherebbe a un bambino che cosa è la felicità?" "Non glielo spiegherei", rispose, "gli darei un pallone per farlo giocare".
   

domenica 18 maggio 2014

Musica # 12 - Survival

We're the survivors, yes: the Black survivors!
I tell you what: some people got everything;
Some people got nothing;
Some people got hopes and dreams;
Some people got ways and means.


Survival - Bob Marley



Per sbaglio, da dietro la porta del pianerottolo, avevo sentito mia sorella maggiore parlare con mia zia di mia madre, erano appena tornate dall'ospedale dove si trovava da qualche giorno. 
Mancavano un paio di settimane a Natale, e mia madre aveva espresso loro il desiderio di passarlo a casa, visto che sarebbe stato l'ultimo per lei.

Il mio cuore saltò un battito e per un secondo, eterno, mi mancò il respiro, sapevo stava male, ma non così tanto.
Corsi in camera mia prima che si accorgessero di me, chiusi la porta e scelsi un disco a caso, non avevo nemmeno 18 anni, ma la mia collezione era gà discreta. Misi il vinile sul piatto e ascoltai ogni lato due volte di fila.

Si trattava di un disco di Bob Marley (e come poteva essere altrimenti). Neville Garrick, il suo grafico, aveva fatto il solito capolavoro, la copertina riproduceva le bandiere di 47 stati africani (in realtà lo Zimbabwe, in fase di transizione è rappresentato con le bandiere dei 2 maggiori partiti), più inspiegabilmente la bandiera della Papua Nuova Guinea (per chi se lo chiede, è la terza da sinistra nella riga in basso). 

La copertina con le 49 bandiere

Il basso di Aston "Family Man" è l'architettura sulla quale Bob Marley costruisce la sua musica, integrandola con testi ispirati, fortemente politici e inneggianti alla solidarietà tra le nazione dell'Africa (ancora più inspiegabile a questo punto la bandiera di uno stato dell'Oceania).

La sezione ritmica dei fratelli Barrett è in stato di grazia, gli ottoni equlibrati e le tastiere giustamente nelle retrovie, al loro posto, non a coprire tutto il resto come capiterà più tardi, nel postumo "Confrontation", vittima di una desolante post-produzione. La cosa migliore di quel disco era la copertina, sulla quale almeno Neville Garrick faceva vincere a Marley  la battaglia contro il male che nella vita l'aveva sconfitto, raffigurandolo nelle vesti di San Giorgio mentre infilza, uccidendolo, il Drago.

Il disco con le bandiere ebbe così tanto impatto sugli africani che Bob Marley fu invitato dal presidente del neonato Zimbabwe (conosciuto prima come Rhodesia, dal suo "scopritore" Cecil Rhodes) per le celebrazioni della dichiarazione di indipendenza nel 1980.

Migliaia di "zimbabwesi" neri (quelli bianchi non ancora scappati all'estero rimasero ben chiusi nelle loro fattorie) ballarano e cantarono quella sera sulle note di "Zimbabwe".

Almeno da quel punto di vista tutto sembrava iniziare sotto una buona stella, voglio dire, fossimo stati da noi, iniziare con migliaia di italiani che ballano al ritmo di "Italia" di Mino Reitano sarebbe stato ben peggiore.

Poco dopo quel concerto, a soli 36 anni, Bob Marley se ne andò per sempre, questo gli impedì, tra le altre cose, di vedere il baratro nel quale lo Zimbabwe precipitò nel giro di qualche anno.

Mugabe, il presidente rivoluzionario (ancora oggi al potere) si rivelò essere  un despota per niente illuminato, riuscì a distruggere l'economia di un paese che fino ad allora era paragonabile ad una nazione europea e affamò la popolazione, già messa in ginocchio dalla piaga dell'AIDS.

Ad un certo punto la situazione andò così fuori controllo che all'inizio del nuovo millennio lo Zimbabwe fu colpito da un'iperinflazione mostruosa, la banca centrale arrivò a stampare banconote da 100.000.000.000.000 dollari (vi aiuto,  si legge "centro trilioni"), e l'inflazione raggiunse picchi del 231.000.000% mese. Per spiegarsi, se al supermercato, davanti a te,  trovavi una vecchia rincoglionita che rallentava la coda, al momento di pagare il litro di latte il prezzo era diventato il doppio di quello visto sugli scaffali.
 
Banconota da Cento Trilioni di Dollari

Ma tutto questo era molto lontano nel tempo e nello spazio dalla mia cameretta e dalla mia piccola apocalisse.

Mia madre continuava a restare in ospedale, con i pochi soldi che aveva messo da parte fece comprare dei regali per tutti, mio padre non capiva e s'incazzava, io capivo ma mi incazzavo uguale. Lei invece, ancora una volta aveva capito tutto e stava affrontando il suo personale Drago con la solita dolcezza.

Giocai la carta della disperazione, come quando all'ultimo minuto il portiere corre in attacco. Un pomeriggio andai in una chiesa dal nome promettente (Chiesa dei Miracoli) a parlare con dio. Gli spiegai il mio problema, onesto com'ero gli dissi che non ero poi un bravo fedele, e che in effetti non sarebbe stato così corretto rivolgersi a lui giusto nel momento del bisogno, che insomma l'avrei capito se avesse aiutato persone più religiose di me.

Il giorno prima di Natale chiamarono dall'ospedale, probabilmente dio aveva sentito solamente la seconda parte del mio messaggio, forse era distratto, oppure in chiesa la linea era disturbata.

Messo giù il telefono tornai con calma nella mia cameretta, chiusi la porta e presi lo stesso disco che avevo ascoltate qualche settimana prima, e solamente in quell'istante realizzai che si chiamava "Survival".

Una scelta casuale mi aveva messo in mano un disco dal titolo profetico, "Survival", sopravvivenza, perché quando ti capita una (piccola) apocalisse, tutto quello che puoi fare è sopravvivere.

Molti anni dopo, in quello stesso giorno, in quello stesso ospedale, alla stessa ora, arrivò mia figlia. 

Non c'è mai fretta per i miracoli.

lunedì 12 maggio 2014

Eroi # 2 - Mike Cameron

"Here’s to the crazy ones. The misfits. The rebels. The troublemakers. The round pegs in the square holes. The ones who see things differently. They’re not fond of rules. And they have no respect for the status quo..." 
The Crazy One - Pubblicità Apple 199

Quando Steve Jobs commissiona questa pubblicità all'agenzia di creativi TBWA \ Chiat \ Day, l'Apple è forse al punto più basso della sua storia. Newton, il suo più grande progetto degli ultimi anni, di fatto il precursore dei palmari (adesso sostituiti da smartphone e tablet), è stato un colossale fallimento, che non solo ha minato la credibilità dell'azienda ma ne ha anche dissanguato le casse. Il c.d.a. che qualche anno prima si era liberato con una specie di Golpe del fondatore della Apple non sa che pesci pigliare, e decide la mossa a sorpresa convinti che ormai non ci sia più nulla da perdere e richiama il padre prodigo Steve Jobs. 
Il buon Steve non perde tempo e s'inventa forse il primo spot della storia fatto non vendere un prodotto ma una sensazione, un'ideale, perchè in quel momento l'Apple non solamente ha quasi finito i soldi, ma è anche in totale confusione. L'unico che sembra capirci qualcosa è il buon Jobs, intuisce che c'è una cosa che nessun'altra azienda ha, o meglio è, cioè nessun altro è la Apple. 
Così nasce un capolavoro assoluto di circa 1 minuto, per promuovere l'idea che l'Apple "è differente". Non so quanto sia vero, però tutto il mondo ci casca, e permette all'Apple di non scomparire dell'immaginario collettivo mentre prepara l'ennesimo piccolo miracolo, il primo iMac.
   

La pubblicità invita in qualche modo a ribellarsi (certo, ricordarsi di filmarsi con l'iPhone mentre lo si fa), perché in fin dei conti tra guardie e ladri quasi sempre si sceglie il ladro, e nessuno può nascondere il fascino dei "troublemakers", non importa quanto piccola sia la loro ribellione. 

Credo fosse l'ultimo anno delle superiori, il nostro preside aveva proibito qualsiasi forma di festeggiamento per Martedì grasso, niente festine, niente musica, niente gente in maschera, si doveva andare a scuola, 5 ore di fila, punto. Con il solito amico/compagno di classe decisi che una cosa del genere non l'avremmo mai potuta accettare, ovviamente non c'era il tempo per organizzare un rave party, ma dovevamo lasciare il segno, compiere il nostro piccolo atto di ribellione, possibilmente prendendo per i fondelli l'istituzione. Il mattino di quel freddo Martedì grasso di Febbraio ci vestimmo di tutto punto e chiusi nei nostri cappotti affrontammo il solito tragitto in vaporetto su di un Canal Grande avvolto dalla nebbia. 
Arrivati in classe scoprimmo le carte, o meglio, i cappotti. Osservando il divieto del preside non ci eravamo mascherati, semplicemente eravamo vestiti come un giorno qualsiasi, d'Agosto. Rimanemmo tutto la mattina seguendo le lezioni e girando per i corridoi della scuola durante le pause vestiti in shorts, camicia hawaiana e cappello di paglia. Incrociammo un paio di volte "le autorità" che fecero buon viso a cattivo gioco, e per quel giorno fummo "The round pegs in the square holes", qualsiasi cosa voglia dire. In cima alla classica dei ribelli di cause (quasi) inutili però non riesco a mettere me è il mio amico, l'olio po spetta ad un idiota ancora più grande, tale Mike Cameron, l'eroe di questo post. 
Fine anni '90, siamo alla Greenbrier High School di Evans, una piccola città a pochi chilometri da Atlanta, dove ha sede la casa madre della Coca Cola, da queste parti presenza piuttosto ingombrante. Infatti, per forgiare le nuove menti, il colosso di Atlanta organizza da anni dei concorsi nelle scuole, con premi che arrivano fino a 10.000 $, per chi trova il modo più creativo impegni diffondere l'immagine della Coca Cola. Un cavallo di Troia per riempire le aule con il logo e i colori della "soft drink" più famosa al mondo.Cameron 
Mike Cameron con la camicia incriminata 

Il giorno 18 Marzo 1998 è "D day" (a dire il vero sarebbe meglio chiamarlo il "C day"), il preside della Greenbrier High School è in fibrillazione, tutto è organizzato al minimo dettaglio per vincere quel premio, in pieno stile Corea del Nord, l'apice del programma prevede la scritta gigantesca "Coke" formata dagli studenti. 

Al momento della foto aerea il fotografo nota qualcosa che stona, c'è un ragazzo che indossa una camicia diversa da tutti gli altri, qualcuno non ha fatto i compiti a casa, ma lo scandalo scoppia quando ci si accorge che non tratta di una camicia qualsiasi, bensì di quella dell'arcirivale Pepsi. Grande momento di imbarazzo, viene chiamato il preside e tutto si ferma. Viene individuato l'autore di questo atto di lesa maestà, si chiama Mike Cameron ed è uno studente Senior, cioè all'ultimo anno. Lui dirà che indossava quella camicia già dal mattino senza nessun problema, al presidente invece viene detto che il giovane ribelle l'aveva messa esclusivamente per la foto, facendo la lucida e consapevole scelta di boicottarla. Qualsiasi sia la versione, la scuola non la prende molto bene, perché quell'atto di insubordinazione costa sicuramente il primo premio offerto dalla Coca-Cola, in compenso fa "vincere" 1 giorno di sospensione al buon Mike, colpevole di aver rovinato la giornata della Coca- cola, e colpevole di aver voluto essere il "round peg in the square hole" per un giorno. 
Quando gli verrà chiesto il motivo di tale comportamento, semplicemente dirà: "I walked into school wearing a Pepsi shirt, because that's my personality. I don't like to follow the trend of everyone else." 

Va bene così Mike, vogliamo crederti, però la prossima volta procurati una maglietta della Cedrata Tassoni.

giovedì 8 maggio 2014

Musica # 11 - Sotto le stelle del jazz


Duemila enigmi nel jazz 
ah, non si capisce il motivo
nel tempo fatto di attimi
e settimane enigmistiche



Sotto Le Stelle Del Jazz - Paolo Conte


Che cosa è il lusso? La domanda è una di quelle che si apre ad un numero infinito di risposte, forse niente è più personale della definizione del lusso.
Ognuno ha la propria risposta, inutile nemmeno elencarle, per me una delle manifestazioni più limpide del lusso è la possibilità di avere tempo libero, con la mente leggera e senza sensi di colpa. Avere una quantità quasi infinita di tempo libero al punto che sei costretto a trovarti un passatempo.

Le persone della mia generazione sono riusciti a vedere i propri genitori andare in pensione in modo dignitoso (non credo i nostri figli potranno dire altrettanto), e in mancanza di Internet e di aggeggi tecnologici, spesso il tempo a loro disposizione veniva immolato ad un settimanale che ha formato le menti di almeno 4 generazioni di Italiani, La Settimana Enigmistica.
A dire il vero mio padre non ha dovuto aspettare di andare in pensione per diventarne un fedele lettore, i mariti di una volta, tornati a casa dal lavoro, non dovevano più muovere un dito, perciò un passatempo del genere, soprattutto per un tipo poco avventuroso come lui, serviva.
Ma all'epoca quella era una passione comune per molte persone, il padre di un mio carissimo amico era una specie di professionista di quel giornale, ne completava con meticolosa pazienza tutte le pagine, leggendone ogni parte, dalle "Spigolature" a "Forse non tutti sanno che...".

Una volta, con un colpo di genio, ad un compleanno il mio amico decise di regalargli  l'abbonamento annuale (che diventò un abbonamento pluriennale). Ma siccome siamo a Venezia, dove tutto ha un proprio modo d’essere, aveva pagato in contanti i 52 numeri annuali all'edicolante sotto casa, ogni Sabato suo padre, al rientro dal giro con gli amici, passava in edicola dove lo attendeva, fresco di tipografia, il nuovo numero de "La Settimana Enigmistica".
Arrivato a casa si armava di Bic (con la matita mai, sarebbe stato sleale) e iniziava a tatuare le pagine intonse con la sua scrittura in stampatello, esattamente come faceva mio padre (abbonamento a parte, io non ho mai avuto un colpo di genio simile).
La Settimana Enigmistica è stata una costante della mia infanzia, mio padre mi lasciava completare "Che cosa apparirà" e "La pista cifrata", i due giochi più facili, causando così le ire di mia sorella, poco più grande di me, che giustamente rivendicava per sé quella pagina.
Con il tempo però il mio interesse per i cruciverba rimase pari allo zero, e alla fine "La pista cifrata" non mi divertiva più.



La grafica è praticamente identica da 40 anni a questa parte, niente di più semplice, razionale e chiaro.  
A partire dalla copertina, con la scritta spavalda grande abbastanza per essere notata ma non troppo da risultare fastidiosa che recita: "La rivista che vanta innumerevoli tentativi d'imitazione".
Poi c'era il cruciverba con la foto della "celebrità" di turno stampata a bassa risoluzione, in un bianco e grigio che sarebbe stato desolante anche per la pagina degli annunci funerari di un quotidiano locale negli anni '70.
Ma ciò nonostante finire nella prima pagine della "Settimana" per me è un grandissimo riconoscimento, equivale a (quasi) vincere un oscar.



All'interno il bianco e nero è spietato, fino a poco tempo fa macchiato in alcune pagine (come in copertina a dire il vero) da un secondo colore, adesso invece i colori si trovano anche su qualche vignetta o qualche foto, un po' pallidi a dire il vero, ma sempre a colori, un peccato che non possiamo che perdonare.

Quel settimanale fa così tanto parte dell'immaginario italiano, che è finito in una strofa di una canzone di Paolo Conte, forse il più bravo di tutti a racchiudere in parole (e musica) scene di vita comune, a dipingere con pochi versi acquarelli di sensazioni e di ricordi.
Da "quel naso triste come una salita / quegli occhi allegri da italiano in gita" a "con l'aria di due che hanno trovato qualcosa, / volevo abbracciarli ma non mi veniva una scusa" a ovviamente "nel tempo fatto di attimi / e settimane enigmistiche".

Paolo Conte cattura in queste due righe la “quintessenza” (come direbbe lui) de La Settimana Enigmistica, il tempo, almeno per qualche generazione prime delle nostre, era proprio misurato da rebus crittografici e da "Risate a denti stretti".
Anche adesso resta una delle poche certezze certe in un mondo che continua a cambiare, il giorno in cui La Settimana Enigmistica sparirà dalle edicole, l’Armageddon sarà più vicino.

La Settima Enigmistica è la mia madleine, me ne sto lontano, perché non sono ancora in pensione, ma soprattutto perché è una macchina del tempo per me.
Lo sa anche il mio amico, ora che suo padre, come il mio, non c’è più, però lui ha il coraggio di affrontarne un numero ogni tanto, io no.
Sarebbe come aprire un baule abitato da Corvi parlanti, da chilometri di “Strano ma vero”, dai tacchi super sexy di Susi, da vecchi padri armati di biro  e dallo straordinario tenero Giacomo, messo li per ultimo, in quarta di copertina a far da sentinella silenziosa alle soluzioni del numero precedente.



Giusto per far sentire meno in colpa chi usa le scorciatoie, chi aspetta sempre la prossima uscita per completare un cruciverba.







sabato 3 maggio 2014

Eroi # 1 - Andreas Grassl


Al: How come you decided to talk?
Birdy: I didn't decide. It just happened. I don't know.

Infermiere: What's going on?
Al: He talked! Come on, say something. Goddamn it, talk! He talked before.

Infermiere: This won't work.
Al: I'm telling the truth! What are you doing, dumbshit?
Don't you know they'll keep you forever?!
Goddamn it, talk! Jesus, Mary and Joseph! Birdy, talk!
Infermiere: Come on, let's go.

Al: No! Goddamn it! I'm staying here with him! This isn't a game anymore.
Why wouldn't you talk?

Birdy: I didn't have anything to say to him.
 

Birdy (scena finale) - Alan Parker

Qualcuno sa chi è Andreas Grassl? Voglio dire,  qualcuno lo sa senza usare google? E Piano Man vi dice qualcosa?

Nel 2005 Andreas Grassl è stato protagonista di una vicenda bizzarra  che per alcuni mesi ha intrigato mezza Europa, finendo anche nelle pagine di giornali americani.


Il 7 aprile 2005 la polizia di Sheerness nel Kent, trova un ragazzo magro in stato confusionale. Se ne va in giro vestito elegante in un completo nero con tanto di cravatta, completamente bagnato e senza documenti.

Non parla, sembra capire le parole in inglese dette dai poliziotti ma non interagisce, il mistero si infittisce una volta scoperto che tutte le etichette degli indumenti che indossa sono state rimosse.


Alla polizia non resta che portare il ragazzo nel più vicino ospedale, nella speranza che inizi a raccontare la sua storia.



Ma invece di parlare, una volta avuto una penna e un pezzo di carta, disegna un grande pianoforte: è la svolta. Qualcuno lo porta davanti ad un pianoforte vero, e tutto quello che non riusciva ad esprimere con le parole diventa musica, suonando brani di vari generi, da Tchaikovsky ai Beatles.

Quel giorno nasce la leggenda di "Piano Man", l'ospedale psichiatrico dove viene nel frattempo ricoverato inizia a contattare le orchestre di mezza Europa per sapere se qualcuno dei loro pianisti sia sparito.


La foto del giovane con le spalle ricurve e lo sguardo smarrito fa il giro di tutti i media, iniziano ad arrivale le segnalazioni più diverse, c'è chi ci riconosce il marito sparito in Algeria mesi prima, chi un artista di strada francese.



Andreas Grassl aka Piano Man
Ad un certo punto pare che, con la mappa d'Europa sotto il naso, gli venga chiesto da dove viene. Lui indica la Norvegia, allora l'ospedale recupera un interprete ma Piano Man non esce dal silenzio neppure davanti ad un simile sforzo.

Anche i medici sono basiti, da una prima diagnosi di stress post traumatico ora pensano che il giovane sia affetto da una forma di autismo, di quelle che isola il malato dal resto del mondo ma che in qualche modo ne esalta le doti artistiche o matematiche (tipo Rainman).

Nel frattempo i mesi passano, siamo oramai ad Agosto, la storia continua a montare, c'è addirittura chi parla già di un interesse da parte di una casa di produzione hollywoodiana per girare un film su questa vicenda.


Poi improvvisamente il tipo parla e racconta la sua storia, che però non piace a nessuno, incluso l'ospedale che finirà per presentagli un conto di oltre 100.000 sterline.


L'ex Piano Man dice che si chiama Andreas Grassl, viene da un minuscolo paesino di campagna bavarese, ma che i 4 mesi precedenti sono un mistero anche per lui, dice che si ricorda di essere partito da Parigi in treno per arrivare in Inghilterra in preda alla depressione, e qui di aver tentato il suicidio nel mare, ma poi niente più.

Le autorità iniziano a scavare nel suo passato e viene fuori che il giovane tedesco è sempre stato un po' eccentrico, alla ricerca di notorietà fin da bambino, scoprono che ha lavorato in un ospedale psichiatrico, dove probabilmente ha imparato come fingersi pazzo, infine lo bollano come bugiardo, come un millantatore in cerca dei 15 minuti (nel suo caso molto di più) di notorietà.

Anche le capacità musicali di Piano Man si ridimensionano, il ragazzo non è poi così talentuoso, pare abbia giusto pigiato qualche tasto su una pianola elettrica (nemmeno un piano) e che poi la notizia sia stata, per così dire, gonfiata. Ma in questo caso la colpa non è sua.


Certo, se qualcuno dei dottori o anche dei giornalisti si fosse accorto della similitudine di questa soria con il film "Ladies in Lavender" di Charles Dance uscito l'anno prima (tra l'altro con un attore tedesco nella parte di protagonista) ci saremmo risparmiati 4 mesi di ricostruzioni fantasiose.

Daniel Bruhl nei panni del giovane musicista polacco naufrago

Tutto finisce in una bolla di sapone, Andreas Grassl sparisce nel nulla e tutti se ne dimenticano, compresi i presunti produttori hollywoodiani.

Ma quello che resta il vero mistero per me è se il ragazzino tedesco abbia programmato tutta questa pantomima oppure se nell'imbarazzo di essere stato sorpreso bagnato fradicio dalla polizia, abbia improvvisato, infilandosi in una situazione più grande di lui dal quale non è poi più riuscito a venirne fuori in modo dignitoso.

Io voglio credere alla seconda ipotesi, visto che una cosa simile era successa anche a me.

Ero nel solito ristorante di Los Angeles (si, ho fatto altre cose nella vita, un giorno le racconterò) intento nel mio lavoro di sguattero/uomo frigorifero aka Fridge Man, una sera nell'ora di punta decido di lasciare la cucina per prendermi una coca al bar, non proprio la prassi per noi, i pariah del ristorante. Per darmi un contegno prendo il cappello da cuoco che mio zio non usava mai e l'indosso, attraverso la sala gremita, arrivo al bar, prendo la coca e ritorno verso gli inferi della cucina, ma all'ultimo tavolo vengo fermato.
Si tratta della classica "formazione" da ristorante, due tizi attorno ai 50 anni con il portafoglio gonfio accompagnati da due bionde, con altre cose gonfie.
Mi chiedono, indicando il cappello, se sono il cuoco e come mi chiamo, io annuisco e bofonchio il mio nome: "Riccardo, like Ricardo Montalban".
Rafael, il cameriere messicano scuote la testa e mi lancia uno sguardo di disprezzo misto terrore.
Il signore più vicino a me si alza,  mi da una pacca sulla spalla e mi dice che quei "tag-liolini" (li pronuncia così) è la miglior pasta che abbia mai mangiato, e mi chiede come ho fatto.

Sento lo sguardo di Rafael sulla nuca, non ho la minima idea di come diavolo si preparano quei tag-lionini, allora faccio l'occhiolino al tipo e guardando la bionda seduta vicino, gli dico che se gli svelo il mio segreto dopo dovrò ucciderlo.

Grande risata, tutti seduti, io ritorno in cucina e ripongo il cappello al riparo dalle macchie di olio, che come al solito stanno abbandonando le padelle come passeggeri di una nave che affonda.

Dopo un'ora entra Rafael e mi dice che i signori di prima mi vogliono salutare, io indosso il capello ed esco, grandi abbracci e tutto finisce.

Il problema è che i tipi sono dei clienti abituali, così nei 2 mesi successivi tornano almeno una volta a settimana, e ogni volta chiedono di "Ricardo", e ogni volta io esco col cappello in testa, sparo due cazzate sui piatti che hanno appena mangiato e ritorno dentro, a  fare Frigo Man. Poi un giorno riparto per l'Italia, e non sono più né un cuoco né Frigo Man.
Molto tempo dopo mi hanno detto che i tipi c'erano rimasti male nel non vedermi più, ma che Rafael incredibilmente avesse retto il gioco, dicendo che ero stato assunto da un prestigioso ristorante in Italia.

Poteva andare peggio, almeno nessun telegiornale aveva diffuso la mia foto.