giovedì 25 dicembre 2014

Special Christmas Music Edition

You have to trust your team mates, always, if not we are lost.

Eric Cantona - Looking for Eric


Le Roi Eric

La Compilation Musicale è un'invenzione con la quale, quando ancora si regalavano dischi,  l'industria musicale si riempiva le tasche soprattutto durante Natale, monetizzando vecchi autori dimenticati facendo uscire compilation improbabili (tipo "Rod Steward sings the Einstrurze Neubauten").

Natale porta con sè bauli di ricordi, spesso dolci, a volte dolorosi, ma ogni Natale è speciale, e anche le cose più brutte si vedono attraverso una lente rovesciata, così che tutto alla fine sembra più lontano.

Anche questo Natale ha portato la sua dose di tristezza, ma anche molta gioia, per quanto mi riguarda direttamente dal paese di Babbo Natale.

Qui a "Il Poltronauta" si è pensato di offrire ai nostri "numerosi" lettori una Compilation di ben 10 brani legati ai post di questo anno, prima però dovrete sorbirvi il "Poltronauta's Christmas Carol" (oppure fare "scroll down").

C'è un negozio a Venezia, a memoria mia l'ultimo fiorista di San Marco, a pochi passi dal ponte di Rialto, un posto che ad affittarlo renderebbe più dello stipendio di un Senatore. Quel negozio è li da sempre, ma personalmente non ci ho mai acquistato nulla, una mattina di qualche settimana fa ci passo vicino, devo fare un piccolo regalo ad un mio caro amico, entro e prendo dei semi di basilico e altri odori, il tutto per una cifra modesta.

Il signore che mi sta davanti è un vecchietto dalla faccia serena e simpatica, penso sia il proprietario, quando pago mi accorgo di avere solamente una banconota da 50 EUR, il tipo mi dice che ha appena aperto, che non ha da darmi il resto. Allora gli chiedo di mettermi da parte i semi, lui mi guarda e mi dice di prenderli, che posso pagare la prossima volta.

Esco dal negozio incredulo, di buon umore. Magari è solo lo spirito di Natale, ma dopo un anno così brutto, quel gesto mi sembra da premio Nobel.

Torno alla sera, pago il mio debito e gli regalo anche una tavoletta di cioccolato, questa volta è la sua la faccia sorpresa, io lo ringrazio di nuovo, lui mi guarda e dice che oramai è troppo vecchio per non fidarsi più delle persone, che la mia faccia l'aveva rassicurato.

Così mi viene in mente la frase pronunciata da Eric Cantona nel film "Looking for Eric", quando il postino in piena crisi esistenziale, suo fan sfegatato, gli chiede quale sia stato il suo momento migliore da calciatore. 
Senza aspettare la risposta prova ad indovinare, citando una serie di gol, fino a quando Cantona gli confida che il momento più bello è stato un passaggio, un assist. Il postino indovina l'azione, ma gli chiede se non aveva paura che il suo compagno sbagliasse, e a quel punto Cantona piazza la frase del secolo (che se Fabio Volo se ne accorge ci scrive un libro) e dice: "Devi fidarti dei tuoi compagni, sempre. Altrimenti si è perduti". 
Vedendola da una prospettiva diversa, lontana, siamo tutti degli esserini piccoli, bloccati dalla forza di gravità su di un pianeta che sfreccia a migliaia di chilometri all'ora attraverso l'Universo, in fin dei conti è vero che facciamo parte tutti della stessa squadra.

Cammino e penso al fiorista, chissà se ha un fratello che vende Rolex....

Buona visione e buon ascolto.


1) Monkey Man, orignariamente cantata da Toots and the Maytals, qui riproposta da una Amy Winehouse al top. Ammetto di non averla mai ascoltata per davvero, però chiaramente lei era e resta una fuoriclasse.

2) Innocent when you dream, ho cercato una versione alternativa on line, ma quella di Tom Waits resta la migliore, al limite potete cercare quella cantata (malissimo) da Scarlett Johanson, guardando il suo video (muto) con Tom Waits di sottofondo.

3) Song to the Siren, la versione che me l'ha fatta scoprire è quella (meravigliosa) di Robert Plant, ma qui mi sembrava il caso di includere quella dell'autore, Tim Buckley.

4) Francis Albert Sinatra & Antonio Carlos Jobim, ho letto una volta che l'esercito americano, per stanare Noriega, il loro dittatore-marionetta caduto in disgrazia, circondarono il palazzo dove si era rifugiando sparando a tutto volume le canzoni di Frank Sinatra, che lui odiava. Solamente per questo dovevano farlo fuori ben prima. 

5) Face à la mer, non mi stufo mai di ascoltare Helno e tutti i "negresses", ho scoperto questa versione alternativa remixata dai Massive Attack (non gli Eiffel 65, per capirsi).

6) How To Fight Loneliness, canzone preferita per ricordare gli amici assenti, e non solamente a Natale, questa dei Wilco è una di quelle canzoni per le quali mi dispiace non sapere suonare la chitarra.

7) Blue Haways, va bene così, Paolo Conte è immenso anche con una giacca marrone stretta e la faccia da calciatore anni '70. 

8) Pink Moon, qui piazzo uno spot, le bollette bisogna sempre pagarle. Massimo rispetto per il creativo che ha recuperato la canzone di Nick Drake per vendere una macchina, e per farlo scoprire a migliaia di persone.

9) Stay Free, non mettere i Clash mi sembrava un affronto. Dedicata a che cerca di essere libero, da qualsiasi cosa. Guardate poi lo sguardo di Mick Jones verso la fine, da solo vale il prezzo del biglietto.

10) Last Goodbye, dovendo ridurre a 10 i brani di questa edizione ho lottato fino alla fine, ma non potevo escludere Jeff Buckley, al costo di lasciare fuori molti altri. 

domenica 21 dicembre 2014

Musica # 26 - Face à la mer

Si on allait au cimetière
Voir mon nom gravé sur la pierre 
Saluer les morts face à la mer 
Ivres de vie dans la lumière

Face à la mer - Les Negresses Vertes



A Venezia c'è una biblioteca che ha formato e continua a formare le migliori menti dei veneziani degli ultimi 145 anni, se ve lo state chiedendo vi confermo che tra queste menti la mia non c'è.
Quando il nobile Giovanni Querini Stampalia creò la fondazione a lui intitolata ovviamente non sapeva che oltre 100 anni dopo avrei frequentato le sale silenziose (a parte  il fastidioso parquet scricchiolante) cercando di trovare una strada nella mia vita. Ma alle mie giornate di studio con l'andare del tempo si sostituirono, sempre più frequentemente, giornate di lavoro.
Ogni scusa era buona per tirare su un po' di soldi, perciò mi ritrovavo spesso a svolgere lavori particolari, alcuni al limite del surreale, puntualmente finiti (quasi tutti) nel mio c.v.

Quello di cui vado molto fiero, e che un paio di volte ha salvato i miei colloqui di lavoro, è stato il Censimento dei piccioni di Venezia, un'altra volta magari spiego come funzionava, fin d'adesso posso dire che la popolazione dei pennuti risultò essere di circa 30.000 esemplari, nel caso qualcuno avesse questa curiosità.

Altri lavori, meno "nobili", non sono mai finiti nel mio c.v., uno dei più tristi era qualcosa definibile come "guida abusiva", ma leggermente più sofisticata.
Lo schema prevedeva che un albergo a 4 stelle mi chiamasse per portare in giro coppie facoltose, facendole finire casualmente in una vetreria "convenzionata" che ovviamente riconosceva al portiere di turno (non a me) una mancia.

Durante la guida avrei dovuto preparare psicologicamente i clienti, ma spacciare per capolavori pezzi di vetro venduti ad un prezzo 20 volte il loro valore non faceva per me. Inutile dire che dopo 5 o 6 mancate vendite, nessuno mi chiamò più. 

Però le mie "guide" erano apprezzate, mi ricordo ancora di 2 coppie di ricchi francesi (i due uomini erano titolari di un'azienda di impianti che aveva appalti in tutta l'Africa francofona) che mi vollero anche a cena. Quando le chiacchiere finirono sulla musica francese calai, con nonchalance , i miei due assi. Con una punta di orgoglio dissi che i miei gruppi preferiti erano Mano Negra e Les Negresses Vertes. I tipi, bianchi francesi conservatori con ancora il poster di Charles De Gaulle in cameretta, mi fecero notare che quelli non erano gli esempi che meglio raffiguravano la vera musica transalpina, e mi elencarono gli artisti francesi per loro più rappresentativi. Non mi sembrò il caso di far loro notare che Charles Aznavour in realtà si chiamava Chahnourh Varinag Aznavouri e che fosse figlio di due immigrati armeni (la madre, di Smirne, sopravvisuta al Medz Yeghern),  che Yves Montand era nato in Italia con un altro nome (Ivo Livi) e che neppure Juliette Greco avesse poi un cognome così francese.

Una delle prime formazioni de Les Negresses Vertes

Le mie band, soprattutto Les Negresses Vertes, erano per me francesissime proprio per il loro mix multietnico. Il loro primo disco "Mlah",  di cui avevo consumato il vinile, inizia con un meraviglioso valzerino, che non avrebbe sfigurato nella colonna sonora di Amelie, e poi continua con canzoni altrettanto francesi, frutto del lavoro collettivo di un gruppo di ventenni caciaroni e pieni di energia.
A leggere i cognomi dei componenti si intuisce l'origine di questi ragazzi, che vanno dall'Algeria fino alla Bretagna, passando per l'Italia. I brani del loro disco d'esordio portano gli echi della musica Andalusa e di quella Algerina, filtrata con ritmi a volte vicini allo ska. Il tutto accompagnato da testi in francese principalmente scritti e cantati dal frontman Helno Rota De Lourcqua, alias Noël Rota, nato proprio il giorno di Natale in una famiglia di origini italiane.

Ad un certo punto Les Negresses Vertes diventarono la band del momento, arrivando in tournè anche in Italia. Vennero a suonare a Conegliano, una mia amica riuscì pure a recuperare un paio di biglietti, ma alla fine al concerto non ci andammo, non mi ricordo nemmeno il motivo.

Tempo dopo lessi la recensione di quel concerto, il giornalista descrisse la band con una specie di circo colorato in eterno movimento sul palco, al centro del quale stava, immobile, Helno, aggrappato all'asta del microfono come un naufrago al salvagente nel mezzo di una tempesta.
Helno in realtà stava tutti i giorni in mezzo ad una tempesta, era la sua dipendenza dall'eroina, che lo stava consumando, mentre lui e la  sua band continuavano a girare l'Europa.

Un rilassato Noël Rota, aka Helno Rota De Lourcqua

"Famille nombreuse", il loro secondo disco, è ancora più bello, più maturo, suonato meglio, con la band in stato di grazia. I demoni di Helno lo tormentano ancora, ma lui non molla, cerca di esorcizzarli.

In una strofa di quella che è una delle più belle canzoni dell'album, "Face à la mer", dice qualcosa tipo: Se andate al cimitero / Guardate il mio nome inciso sulla lapide / Salutate i morti che guardano il mare / Ebbri di vita nella luce.

Un mese dopo aver compiuto 29 anni (4 in meno di Cristo, John Belushi e Bruce Lee, ndr) Helno muore di overdose. Leggo la notizia sul giornale mentre sono alla Querini Stampalia e subito condivido il mio dolore con un amico che mi sta di fronte, al quale bisbiglio che Helno è morto.
Mi chiede cosa gli è successo, quando gli spiego che si è trattato di un'overdose lui, ragazzo dalla sensibilità di un celerino, dice: "Cussì l'impara a drogarse".

Quando il terzo disco esce, un anno dopo, Le Negresses Vertes sono ormai implosi, in fin dei conti erano nati da un gruppo di amici che volevano semplicemente suonare, la scomparsa di Helno è un colpo troppo duro. La band di fatto smette di esistere poco tempo dopo.
Il disco non è poi così brutto, ma si intuisce che manca qualcosa, che la magia è sparita, di Helno Rota De Lourcqua non c' traccia, a parte l'ultima frase in quarta di copertina del libretto che accompagna il CD, due semplice laconiche parole.

Pour Noël.


domenica 14 dicembre 2014

Cinema # 7 - L'urlo di Chen terrorizza anche l'occidente


Chen Ching Hua (looking at the Colosseum): How do you like this place? 
Tang Lung: Its a waste. All of this. In Hong Kong, I would build on it. Make money.

The way of the dragon - Bruce Lee (1972)



Quando aveva oltre 80 anni Mario, un signore americano nato a Genova nel 1900, decise di fare  il suo viaggio d'addio all'Italia, passò anche per Venezia, e siccome era un caro amico del mio "zio" americano, mio padre decise di ospitarlo a casa nostra, cedendogli la mia stanza per circa una settimana.
All'epoca era davvero la persona più vecchia che avessi mai visto, negli anni successivi ho parlato anche con ultra novantenni, ma logicamente nessuno nato prima di lui.

Lo rividi un paio di anni dopo a Los Angeles, mio "zio" spesso lo invitava a pranzo la domenica, mentre io ogni tanto passavo a trovarlo in bicicletta nella sua casa, sul Pico Boulevard. La zona non era esattamente Beverly Hills, ma nemmeno Englewood per intenderci, ormai abitava in quella casetta da 40 anni, mio zio l'aveva comperata assieme al terreno circostante da poco ma non gli faceva pagare un centesimo.
La casa era esattamente come doveva essere quella di un quasi novantenne: mobili vecchi di formica, carta da parati diventata beige per stanchezza, un odore da che sapeva di antico. Al muro il calendario in uso era attaccanto sopra quelli degli ultimi 10, 15 anni, tutti con delle annotazioni in una calligrafia elegante, comunque incomprensibile per me.

Un giorno mi raccontò la sua storia. 
Poco dopo la fine della grande Guerra, durante la quale era stato  imbarcato a bordo di uno dei primi sommergibili della marina italiana, partì per New York per lavorare come manovale al porto (avviso agli amici in camicia verde e in camicia nera, anche gli italiani sono stati extracomunitari).
Il lavoro era duro, divideva l'alloggio con altri italiani, risparmiava il più possibile per racimolare in fretta i soldi per sposare la sua fidanzata rimasta a Genova. Dopo qualche mese gli arrivò un telegramma, la sua amata improvvisamente era morta. Mi raccontò di come si sentì mancare la terra da sotto i piedi e di come decise che non ci fosse più alcun motivo per tornare in Italia (in realtà ci ritornò 2 volte, la prima dopo la seconda guerra mondiale, e l'ultima appunto negli anni '80).
Rimase ancora qualche anno a New York, poi si spostò verso Ovest, facendo mille lavori diversi, fino a quando arrivò a Los Angeles. Da buon italiano aveva una gestione attenta dei soldi, però al posto del classico materasso, li aveva sempre investiti in borsa. L'indomani del lunedì nero del 1987 mi disse con candore che aveva perso una bella cifra, poi sorridendo aggiunse che forse era l'unico uomo ad aver perso sia in quel crollo che in quello del 1929.
Parlava un italiano perfetto, con un lieve accento genovese (ogni tanto gli scappava un belin), con un vocabolario fermo agli anni '30,  descrisse la sua moglie americana, dalla quale aveva divorziato molti anni prima, come balenga, parlava delle gang di sudamericani che ronzavano attorno alla sua casa come di giannizzeri.
Insomma, linguisticamente parlando era un fossile vivente, come spesso capita con gli immigrati, però a differenza di tanti altri, non aveva imbastardito la sua lingua con vocaboli americani. Come una forma di attaccamento alla madre patria, aveva reso impermeabile il suo italiano a qualsiasi influenza esterna ed evoluzione.
Invece le lingue, così come i dialetti, si evolvono per forza, sicuramente uniformandosi tra di  loro, ma non possono stare ferme, assorbono vocaboli a discapito di altri, si inventano modi di dire.

La grande mattanza delle sale cinematografiche di Venezia è avvenuta a partire da fine anni Ottanta, perciò ho fatto in tempo a vedere film praticamente in una decina di cinema diversi, quasi tutti quelli della città (a parte forse un paio perchè già chiusi), l'unico che ho mancato è stato il cinema dell'Arsenale. 
Ho recuperato qualche hanno fa durante la Biennale di Musica, quando ci ho visto il concerto di tale Scanner, la sala a differenza delle altre è sopravvissuta tornando alle origini, cioè ad essere (di tanto in tanto) teatro.
Negli anni settanta scoppiò anche in Italia la "Bruce Lee Mania", come ovunque nel mondo il primi ad infatuarsi delle sue acrobazie furono gli adolescenti, quasi sempre delle zone più popolari. 
La fama di Bruce Lee e dei film di arti marziali in genere erano tali che persino Franco Franchi si cimentò, a suo modo, in un film d'azione, uscendo con una magnifica pellicola recitata in siciliano e finto cinese: "Ku Fu, dalla Sicilia con furore". Qui Franco Franchi, per diventare vigile urbano, è costretto a partecipare ad una gara di Karate,  scontrandosi con due maestri dell'arte del calibro di Gianni Agus (Kon Chi Lay!?) e Enzo Andronico (Ce-Lo-Kon-Te!?).
Le battute non sono esattamente a punta di fioretto, per darne un'idea, al culmine dello sforzo durante un combattimento all'interno della palestra di Gianni Agus, Franco Franchi rilascia un peto esplosivo, che fa dire al povero Agus: "Aprite porte e finestre, costui non ha solamente le dita d'acciaio...".

Quando Bruce Lee morì a soli 33 anni (ndr, come Cristo e John Belushi) passò dalla gloria alla leggenda.


Bruce Lee con moglie e il figlio Brandon

A vederli adesso i suoi film sono poco meno che imbarazzanti, con trame inverosimili, regie approssimative (tranne che nelle scene dei combattimenti),  solamente la soggezione nei confronti di Bruce Lee impedisce di ammettere ad alta voce che si tratta di film orribili. 

Però al tempo i suoi film riempivano le sale, e il cinema dell'Arsenale, la sala preferita di Castello, quartiere al tempo super popolare di Venezia, una volta esauriti i pochi titoli con il maestro di Hong Kong, iniziò a proiettare i suoi cloni. Il risultato era sempre lo stesso, decine di ragazzini (e non solo) si esaltavano a vedere le acrobazie dei combattimenti, ma era durante l'intervallo che i poteva godere del vero spettacolo, quando cioè a turno, coppie di ragazzini salivano sul palco ad imitare le mosse di Kung Fu viste sullo schermo pochi minuti prima, sostenuti ovviamente dal tifo da stadio dei compagni in platea.

Tra i film che ebbero maggiore successo di Bruce Lee c'é "L'urlo di Chen terrorizza anche l'occidente", per il quale scrisse la sceneggiatura e curò sia la regia che al produzione. La storia è ambientata a Roma, i cattivi (la Triade cinese) sono cattivissimi e vogliono taglieggiare la famiglia di Bruce Lee, che invece ovviamente mena fendenti a dritta e a manca, fino ad un improbabile e conclusivo  duello contro un giovane Chuck Norris con il Colosseo (!?)  di sfondo.

Fu poco dopo che inziai a sentire un espressione che girava per la città, cioè  "darghe de Chen (pronunciato Ken)" ad indicare il ripetere con una certa continuità e con forza un atto, un gesto, un'azione. Forse qualche esempio spiegherà meglio.
Comperi un disco nuovo, ti piace e lo ascolti 10 volte di seguito, il tuo vicino esasperato se ne accorge e tra le altre cose dice: "Ti ghe dà de chen co sto disco".
Hai la fidanzata nuova, lei ha la casa libera, progetti di "darghe de chen tutto il pomeriggio".
Stai piantando un chiodo su di una parete, non ci riesci, il vicino (probabilmente lo stesso del disco) da oltre il muro urla:  "Daghe de chen, ti vedarà  che l'entra".
Non ci sono prove scientifiche a sostegno della mia teoria, ma sono convinto che questo modo di dire nasca proprio dal film di Bruce Lee, magari non è vero, ma come si suol dire: "My Blog, my rules".

Quel che è certo è che con il tempo, proprio perché la lingua si evolve, sentire questa frase è diventato sempre più raro, adesso praticamente più nessuno dice "darghe de chen", temo dovremo aspettare il 2050, recuperare un novantenne veneziano emigrato in Australia, per risentirla di nuovo.

domenica 7 dicembre 2014

Cinema # 6 - Let's get lost


Have you ever felt a gentle touch and then a kiss 

And then and then, find it's only your imagination again?



Imagination - Chet Baker



Ho sempre avuto la passione per il Cinema, ho visto film in qualsiasi delle (ex) sale cinematografiche di Venezia: ho resistito pomeriggi interi sulle dure sedie di legno del Cinema Accademia, ho sopportato la puzza di "cane bagnato" che emanavano le poltrone del Cinema Olimpia inzuppate da un'acqua alta epocale.

Ma era durante i  primi giorni di Settembre che la mia passione cinefila toccava le punte più alte, quando finalmente iniziava la Mostra del Cinema del Lido di Venezia.

Erano edizioni meno glamour rispetto alle ultime, senza red carpet, nani e ballerine, o per lo meno è quello che mi ricordo. Partivo ad un certo punto della giornata da casa mia, resistevo alla tentazione di fermarmi in spiaggia, invogliato dall'aria tersa e dall'acqua cristallina che l'Adriatico offre solamente a Settembre, e mi infilavo nelle varie proiezioni.


Dalla mattina fino a notte inoltrata. 


Orbitare quelle 12 ore al giorno nei dintorni del Palazzo del Cinema poteva sembrare uno spreco di tempo ed energia, ma portava con se qualche vantaggio, c'era certamente il rischio di vedere i soliti perditempo intellettuali con il il tesserino dell'accredito ben in vista (gli stessi che ritrovavi alla stazione dei treni, sempre con l'accredito esposto, of course), ma potevi anche incrociare qualche regista o attore famoso, come quando andai quasi a sbattere contro un monumentale (in tutti i sensi) Sergio Leone, però questa storia ve la racconto (forse) un'altra volta.

Il vantaggio maggiore era quello di vedere film in lingua originale che mai più avresti potuto vedere (e a volte dopo la proiezione non avresti mai più voluto vedere). I titoli dei film visti in anni di Mostra sono ormai perduti nella memoria, e nemmeno io me ne ricordo più tanti. Ecco, ora che ci penso qualcuno me ne viene in mente, come un film ungherese con Giulietta Masina (Frau Holle) oppure un devastante film finlandese (Il Pozzo), comunque sempre film visti a caso, giusto perchè mi trovavo da quelle parti.

La sfida maggiore era quella di riuscire a scroccare l'ingresso, devo dire che per qualche anno mia sorella lavorò per la redazione della Biennale durante il periodo della Mostra, in più spesso avevo altri amici nel "cinema business", anche se non  proprio nei ruoli più nobili.
L'anno del mio record (27 film in poco più di una settimana) riuscii a vedere un film,  del quale non ricordo il titolo,  grazie ad un mio amico che doveva portare le pizze con le pellicole (una volta si faceva così) e che vedendomi in difficoltà nel recuperare un biglietto, mi diede una pizza e mi invitò a seguirlo, facendomi entrare in platea passando da dietro lo schermo.

All'epoca mi piaceva molto la fotografia, una passione che speravo potesse diventare una professione, seguivo con attenzione quel mondo, perciò quando seppi che alla Mostra ci sarebbe stato un film di Bruce Weber, un fotografo di moda, maestro del bianco e nero per il quale nutrivo una smisurata ammirazione, andai al Lido a colpo sicuro.
Il film parlava di tale Chet Baker,  un musicista jazz del quale non sapevo nulla, ma andava bene così, sfido qualsiasi ventenne a sapere qualcosa di jazz.

Il problema era il biglietto, mia sorella non era riuscita a recuperarne uno gratuito, del mio amico "pizzaiolo" non c'era traccia, insomma ero ad un passo dal pagare il primo biglietto di quell'edizione.

Feci un ultimo tentativo con mia sorella, che ebbe un'intuizione geniale, l'ufficio del mega direttore galattico si trovava al piano superiore della Sala Grande e aveva una porta secondaria che si apriva direttamente in galleria, il tipo non fu particolarmente entusiasta all'idea di farmela usare, però si fece intenerire dalla mia situazione.

Dovevamo aspettare il buio in sala per evitare di farmi scoprire, così appena si spensero le luci, il tipo aprì la porta e mi ritrovai inghiottito dal nero feroce della Sala Grande. Scesi di qualche fila e a tentoni mi infilai verso il centro,  mi accorsi troppo tardi che i posti migliori erano già occupati, ma oramai stavano partendo i titoli di testa, perciò mi accontentai di una poltrona quasi centrale.

Il film inizia in sordina, ci sono un paio di ragazze (vestite) che parlano e ballano sulla spiaggia di santa Monica, a Los Angeles, con loro due giovanotti di bell'aspetto, uno dei quali scoprirò molto dopo essere Flea, il bassista degli allora quasi sconosciuti "Red Hot Chili Peppers".

La "fotografia" del film è quella che mi aspettavo, con delle inquadrature e un bianco e nero straordinari. Bruce Weber alterna foto e immagini del passato (anni '50 e anni '60) con fotografie e immagini del presente, in un bianco e nero così intenso che dopo qualche minuto ti abitui, ti rassegni all'idea che il colore non potrebbe che peggiorare la visione.

Chet Baker giovane è di una bellezza irreale.




Chet Baker bellissimo, a 24 anni

Tra i filmati d'epoca ci sono persino dei pezzi di "musicarelli" italiani anni '60, con Celentano e Mina, Chet Baker in Italia non a caso passò molto tempo, partecipando anche ad un San Remo e finendo per ben 16 mesi nel carcere di Lucca per possesso di sostanze stupefacenti.

La dipendenza dall'eroina è l'altra protagonista del film, assieme alle magnifiche registrazioni originali che Chet Baker si/ci regala appositamente per il lungometraggio di Weber. 



Mentre il film prosegue, io mi accorgo che mi sto perdendo in quella voce d'angelo. La tromba di Chet Baker è il piede sinistro di Maradona, il pennello di Van Gogh, la penna di Fitzgerald, resto ipnotizzato dal suo suono, e poi c'è quel bianco e nero....


Bruce Weber non ha pietà, in senso buono, non fa sconti ma non affonda  la sua cinepresa sulla caduta dell'angelo Chet Baker, si limita a raccontarla, come fosse l'altra faccia della stessa medaglia,  alternando interviste a vecchi amici (pochi) alla madre (una dolce vecchietta)  e ai familiari, palesemente  a disagio nel parlare di un uomo che è a loro quasi sconosciuto.

L'aspetto angelico del giovane trombettista era scomparso del tutto probabilmente già negli anni '60, quando la fama di artista anticonformista e maledetto di Chet Baker aveva ispirato una specie di film biografico con Robert Wagner come protagonista (perchè nel frattempo Chet era stato arrestato in Italia) intitolato "All the fine young cannibals" (esatto, é dal titolo del film che la quasi omonima band popolare a cavallo degli anni '80 e '90, aveva preso il proprio  nome). 

Nei ritratti in movimento che Bruce Weber gira in bianco e nero, la straordinaria bellezza di Chet Baker è invisibile, nascosta da rughe profonde, segnata da anni di eroina.  In fin dei conti non ha nemmeno sessant'anni, ma ne dimostra  20 in più, almeno fino a quando non inizia a cantare, e allora ti accorgi che dietro quella maschera di rughe, un angelo forse c'è ancora.




 Il disco con la colonna sonora di "Let's get lost" in fondamenta a Venezia


Il film è pieno di momenti emozionanti, di immagini che toccano l'anima, come quando Chet Baker racconta il piacere che lo "speedball" gli procura, oppure quando gli viene chiesto quale sia stato il momento più felice della sua vita, e lui ci pensa mezzo secondo, e racconta di quella volta che acquistò una Alfa Romeo SS fiammante.

Il ritratto che viene fuori di Chet Baker è quelle di un uomo piccolo, piccolo, egocentrico, un tenero bugiardo del quale però non puoi che innamorarti.
Quando racconta di come degli "sconosciuti" gli spaccarono la bocca (probabilmente per debiti di droga), di come fu costretto a imparare a suonare la tromba con la dentiera e di come finì per 3 anni sopravvivendo con ogni tipo di lavoro, incluso il benzinaio, inevitabilmente tifi per lui.


Verso la fine del film canta "Almost Blue" dal vivo, davanti ad una platea fino a quel momento distratta e caciarona, Chet Baker compie l'ennesimo miracolo. Se avesse potuto vivere solamente durante gli attimi delle sua canzoni, sarebbe stato un uomo perfetto. 



Mi viene difficile trasportare le emozioni di quel film, bisogna vederlo e basta, immergendosi dentro, anima e corpo.



Il film sta per finire, prima dei titoli di coda compare una scritta che dice che Chet Baker é morto il 13 maggio 1988*. Lo so, avrei dovuto saperlo, mi sarei dovuto informare prima, ma che Chet Baker fosse morto lo scopro solamente in quel momento, e mi viene un groppo in gola.

Le luci si accendono, sto quasi per piangere, l'emozione in sala si può quasi toccare, il pubblico in platea (nemmeno così tanto)  si gira vero di me, ancora seduto in galleria.

Su due piedi penso che mi hanno scoperto, qualcuno che sapeva della porta numero 2 del mega direttore ha fatto la spia, mi sembra strano però. Poi sono tutti in piedi, ed iniziano ad applaudire, pure qui penso che va bene, ammetto che passare attraverso l'ufficio del dirottero è stato un colpo di genio, ma addirittura applaudirmi mi sembra troppo.
Qualcuno due poltrone più in là della mia, verso il centro, inizia a ringraziare,  così mi accorgo che gli applausi erano giustamente per il regista e il cast del film, che hanno visto il film seduti ad un paio di metri da me.

Mi tranquillizzo, ho assistito ad un capolavoro, al film più cool di sempre, nessuno potrà dirmi nulla se inizio a piangere.



*CHET BAKER è morto venerdì 13 maggio 1988 alle 3 a.m., aveva 58 anni. Il giornali scrissero che era caduto dalla finestra del suo albergo di Amsterdam. La polizia si limitò a dire di aver trovato il corpo di un uomo di 30 anni con una tromba.  Quella sera, a Parigi, in tutti i Club di Jazz, non i suonò.