martedì 27 gennaio 2015

Musica # 30 - Space Oddity


Though I'm past one hundred thousand miles
I'm feeling very still
And I think my spaceship knows which way to go
Tell my wife I love her very much "she knows"
Ground Control to Major Tom
Your circuit's dead, there's something wrong
Can you hear me, Major Tom?

Space Oddity - David Bowie


Prima o poi doveva capitare, come al solito succede sempre troppo presto, quando non si è ancora pronti, ammesso che si possa mai essere pronti per certe cose.
Il Poltronauta è in silenzio radio da giorni ormai, la stazione di Controllo sulla Terra ha perso ogni contatto.

Non è chiaro se o quando tornerà, di solito dopo aver "vissuto" un bel sogno, ci si augura sempre che si ripeta, anche se sappiamo che non è vero, speriamo sempre ritorni.

In "Searching for Sugarman" il regista chiede ad un vecchio Rodriguez perchè, dopo il secondo disco, avesse lasciato la musica per fare il manovale. Lui risponde con la sua voce calma dicendo una cosa semplice ed immensa al tempo stesso "I would have liked to have continued, but nothing beats Reality".

Forse è vero, forse non si può sconfiggere la Realtà, ma sarebbe da codardi non provarci nemmeno.

In attesa di improbabili buone notizie da parte de Il Poltronauta, vi lasciamo con una manciata di post da rileggere e condividere, e una versione speciale di "Space Oddity", quella del capitano Chris Hadfield, una persona che la Realtà l'ha battuta.




sabato 17 gennaio 2015

Musica # 29 - Lessons in love

All the homes that we were building 
We never lived in 
Could be better, should be better 
Lessons in love




Lessons in love - Level 42


Non sono mai stato un animale da concerto, di solito la pigrizia ha sempre avuto la meglio su di me, e poi ho sempre pensato che vedere una band dal vivo, dividere il proprio cantante preferito con centinaia, migliaia di altre persone era un gesto di generosità troppo grande.
Senza contare che  sentire il pezzo che ami alla follia massacrato da una versione ignobile di karaoke può essere un'esperienza destabilizzante.
Certo, qualcosina qua e la mi e capitato di vedere, un "Ray Charles and his orchestra" una sera nebbiosa d'inverno nelle campagne vicentine, Miles Davis (per lo più le sue spalle) al teatro la Fenice, prima dell'ultimo spaventoso incendio, un ultraterreno Anthony (and the Johnsons) nel meraviglioso teatro Romano di Verona.

Così quando arrivai a Los Angeles per la prima volta la mia priorità non fu quella di cercare i club o i teatri dove vedere concerti che sicuramente quella città poteva offrire, semplicemente mi limitai a girare con la bicicletta in cerca di soggetti per la mia Yashica fx-3, anche se la preoccupazione maggiore mentre pedalavo tra le soleggiate strade di Santa Monica e di Brentwood era quella di evitare le macchine e conservare un po' di fiato per le salite.

Mi sarebbe piaciuto vedere i Lakers in azione, quello si, ma mio zio aveva agganci solamente per i Raiders, una delle due squadre di football che all'epoca giocavano a Los Angeles. Perciò riuscii a vedere 3 interminabili partite di football, nell'imponente Coliseum Stadium, vi assicuro però che a parte le cheerleaders, scosciate ma lontanissime, il football è di granlunga più divertente visto in TV.

In quei 5 mesi, mio zio riuscì a scroccare anche i biglietti per un paio di concerti, il primo, al quale andammo assieme, era quello di Joe Cocker, al tempo fresco di una tournée fatta in Italia assieme a Zucchero.

Grazie alle conoscenze di mio zio (ed ad una cassa di Porto) dopo il concerto andammo nel back stage, dove scambiai 2 chiacchiere con un gigantesco, nel senso di altezza, Joe Cocker, che si sorprese del fatto che non l'avessi visto in Italia (minchia, cantavi con Zucchero, mica con Bob Marley), comunque fu molto cordiale e simpatico (e ubriaco).

L'altro aggancio di mio zio mi permise di andare al "The fabulous Forum", casa madre dei miei amati Lakers, per assistere ad un doppio concerto.

La stella della serata era Tina Turner, all'epoca al culmine della sua seconda vita artistica. Per quelli della mia generazione Tina Turner era una pantera quarantenne con minigonne e tacchi, che cantava con una carica sessuale che avrebbe arrapato anche Formigoni. Il concerto fu esattamente così, con Tina che si dimenava sul palco mandando in estasi tutto il pubblico, donne e bambini compresi. 

Ecco, il pubblico. Se gran parte era lì per la "seconda" Tina Turner, essendo a Los Angeles, molti erano anche i fan della prima ora, quelli che avevano conosciuto e amato la Turner quando ancora faceva parte del duo soul "Ike and Tina Turner", composto da lei (giovanissima) e dal marito. Si scoprì poi che dietro a quel duo si nascondeva una storia di violenza e soprusi da parte del marito, ma questa è un'altra storia, ciò nonostante all'epoca riuscirono a sfornare decine di hits.

I fan della prima ora erano uno spettacolo nello spettacolo, tutti di colore, tutti over 50, vestiti come in una puntata dei Jefferson.
Il tipo davanti a me sembrava persino finto, chiuso in uno strettissimo tre pezzi di velluto marrone, con i colletti della camicia bianca così lunghi e a punta che adesso non passerebbero un controllo all'aeroporto, ma il particolare più inquietante era la chioma, lunghi capelli neri domati a fatica da chili di brillantina, evidentemente usata per anni, perchè ogni suo balzo i capelli sulla nuca si alzavano, facendo apparire una striscia scura e unta lungo tutto il colletto della giacca.

Il concerto di Tina Turner fu un tripudio di sensualità e pop soul anni '80, ma fui impressionato dal gruppo spalla, che aprì la serata in un modo che non mi scorderò mai.


Un giovanissimo Mark King

Buio totale sul palco, buio totale sugli spalti, poi all'improvviso un lampo rosso, come una spada jedi, però quasi orizzontale, quando partono le prime inequivocabili note tutti si accorgono che quella spada laser è in realtà il bastone del basso, illuminato da una striscia di led rossi, e dietro quel basso c'è Mark King che che "slappa" sulle corde con il pollice, mentre tiene lo strumento quasi sotto il mento (non proprio come lo suonava Paul Simonon dei Clash).
Parte così "Lessons in love" il più grande successo dei Level 42, e con lui parte tutto il palazzetto, che salta e canta, me compreso. 
Che ve lo dico a fare, sono gli anni '80 e quella canzone letteralmente spacca, quel giro di basso poi avrebbe fatto battere il piede a ritmo anche ad Andreotti, pure adesso che è (forse) morto.

Il testo è quello che è, parla di un amore finito, di sogni costruiti che non saranno mai vissuti, insomma, non proprio quello che ci si aspetterebbe dal ritmo allegro di questo pezzo.
Dopo quella hit i Level 42 produssero un altro pezzo ascoltabile,  "Running in the family" che assieme al precedente "Something about you" rappresenta l'esempio del loro sound, fortemente radicato negli anni '80, poi praticamente il nulla fino allo scioglimento della band, con successiva e prevedibile  reunion/nostalgia che dura fino ad oggi, esclusivamente con esibizioni live in posti sempre più piccoli.

Relegato a pulire calamari e aglio, incastrato tra l'ultimo messicano della catena di comando e il frigorifero del ristorante di mio zio, quelle furono le mie uniche "Lessons in love" del mio soggiorno Californiano, mentre di "Lessons of life" ne ricevetti di continuo, anche su base giornaliera.

Un pomeriggio, mentre stavo sistemando il vino nel bar del ristorante, notai che l’ora che segnava l’orologio sulla parete alle mie spalle era sbagliata, infatti era 5 minuti avanti rispetto a quello che stava indossando mio zio, sedutomi di fronte, tre etti di Rolex d’oro farcito di diamanti. Presi una cassa di un Sassicaia e ci salii sopra per sistemare le lancette dell’orologio. 
“Che cazzo fai?” mi apostrofò con i suoi modi garbati mio zio, quando gli fu evidente il motivo di quell’operazione mi disse di lasciar perdere, che era il suo Rolex ad essere sbagliato. Non potevo credere alle mie orecchie, dopo mesi di lezioni di vita avevo l’occasione per rifarmi, anche mio zio sbagliava allora, Fonzie non era immune dall’errore, mr perfezione aveva un orologio che costava come un fuoristrada e nemmeno funzionava troppo bene. Stavo giocando contro i Lakers da solo, ormai erano sul 140 a 0 ma dopo tanto penare potevo segnare un punto anche io. Avevo stoppato Kareem Abdul Jabbar, superato in velocità James Worthy e bevuto con una finta Kurt Rambis (ok, sul 140 a 0 potevano anche giocare i panchinari). 


Da sinistra, Robert "The Chief" Parish, Larry Bird, Earvin "Magic" Johnson, Kurt Rambis e Lew Alcindor aka Kareem Abdul Jabbar, da notare la lunghezza delle gambe e l'assenza di tatuaggi.
Stavo volando verso il canestro pronto a schiacciare quando dal nulla ecco la maglia numero 32, silenzioso come un fantasma, con uno dei suoi trucchi Earvin "Magic" Johnson mi soffia la palla, mentre sono impietrito e cerco di capire come ha fatto lui si volta e mi sorride, ha gli occhi azzurri di mio zio e mi dice: “E secondo te indosso un orologio da 40 mila dollari per sapere che ore sono?”.

Il cronometro va a zero e la sirena segna la fine della partita, il pubblico è tutto in piedi ad applaudire.

mercoledì 7 gennaio 2015

Musica # 28 - Not here, not now

Smiling faces all around us
You don't want to make a scene
Not here, not now
And I don't want to cry

Not Here, Not Now - Joe Jackson 



Ad un certo punto anche la RAi si accorse che il nuovo trend per i giovani erano i video musicali, e creò una trasmissione apposita. Nulla al confronto di DJ TV oppure di VideoMusic, ma per almeno 1 ora alla settimana il canale nazionale diventava la mia TV preferita.

La trasmissione si chiamava "Mister Fantasy" e a condurla fu chiamato tale Carlo Massarini, un giovanotto alto e magro, con una parlantina veloce, belloccio e con un ciuffo perfetto, ma non abbastanza, che lo faceva sembrare una specie di Brian Ferry stampato con la cartuccia del toner mezza scarica.

Però a me bastava, e in quell'ora la RAI apriva una finestra sul mondo dei video musicali, inutile dire che la musica (parliamo dei pieni anni '80) non era esattamente la mia preferita, però la curiosità era tale che ero disposto a subire l'ennesimo video dei Duran Duran per vedere "Rock in the Casbah" dei Clash, oppure "Steppin' out" di Joe Jackson.

Carlo "Mister Fantasy" Massarini
Adesso, con tutto disponibile sempre ovunque, faccio fatica a spiegare a mia figlia che i video musicali per noi quindicenni erano come la luna piena, sapevi che sarebbero arrivati ma c'era da aspettare il tempo e la modalità adatta.

Nella mia ultima estate da minorenne andai in Inghilterra per seguire un corso d'Inglese organizzato dalla mia scuola.
Si trattava di passare 3 settimane in qualche città sperduta nella campagna Inglese, di solito si finiva nel corrispettivo d'oltre Manica di Asti, invece, per un imprevedibile colpo di fortuna, assieme ad altri miei compagni di classe, fui mandato a Londra, precisamente nella zona dii Crystal Palace, quando me lo dissero mi sentii Willy Wonka che si ritrova in mano il "golden ticket".

Partimmo pieni di entusiasmo, ovviamente imparare l'Inglese era considerato un "danno" collaterale, a noi interessava Londra e basta. 
La classe del mio corso era fortunatamente composta da ragazzi provenienti da tutto il mondo, non solamente da Italiani, nonostante la rappresentanza della nostra scuola fosse piuttosto numerosa.
Numerosa e in prevalenza femminile, e tra le presenze femminili c'era una ragazza, un paio d'anni più grande di me, con due occhi da cerbiatto e un sorriso killer, della quale ovviamente mi innamorai subito. 

Dopo un paio di giorni feci un sogno meraviglioso, ero al "solito" pub, la serata stava finendo, quando la ragazza dagli occhi di cerbiatto mi chiese di accompagnarla a casa. Incredulo accettai e camminai con lei per circa 10 minuti, quando fu il momento di salutarci ci scambiammo un lungo bacio.
Nei giorni successivi il sogno si ripetè più volte, più o meno uguale, e mi ci volle una settimana per capire che non stavo immaginando niente, quei baci e quelle passeggiate erano tutte reali. Mi sentivo come Willy Wonka che improvvisamente scopre di saper giocare a basket come Michael Jordan.

Mi ero quasi scordato di essere Interista.

Durante quelle tre settimane cercai in tutti i modi di fotografare la "mia" ragazza, avevo una Yashica fx3 nuova da sfruttare, ma lei, come le dive degli anni '50, sfuggiva sempre al mio obiettivo (nessun doppio senso, giuro).
Alla fine riuscii comunque a catturarla in un paio di scatti, una volta tornato a Venezia stampai con cura i suoi ritratti in bianco e nero, ma per un motivo o per l'altro riuscimmo a rivederci solamente ad inizio Settembre, un paio di mesi dopo il nostro ritorno a Venezia.

L'appuntamento é per le 8 di sera vicino a San Marco, faccio un po' tardi per cercare di trovare (non riuscendoci) un fiorista aperto, così mi presento solamente con un paio di fotografie (con dedica) dentro una busta.
La vedo, lei sta parlando con un tipo molto più grande di noi, quando la raggiungo mi fa il solito sorriso killer e mi presenta l'amico, dicendomi tutto d'un fiato:  "Ciao, questo è Marco, è il mio ragazzo, c'eravamo presi una pausa questa estate, sa tutto di noi, ma non ci sono problemi. Tornata da Londra ho  capito però che l'amo troppo e adesso ci siamo rimessi assieme".

Guardo il tipo, sembra alto sei metri, in apparenza ha la faccia tranquilla, pacifica, ma facendo un po' più di attenzione mi accorgo che ha la stessa espressione di Mohammed Alì alla fine del settimo round nell'epico incontro con George Foreman in Zaire, quando capisce che l'avversario non ne può più di prenderlo a pugni, manco fosse una statua di marmo, e lo guarda mentre si allontana volgendogli le spalle, di fatto sconfitto.



George Foreman capisce che ormai ha perso, da notare lo sguardo di Mohammed Ali

In quell'istante sono George Foreman, rassegnato ed incredulo, sono Willy Wonka con il biglietto d'oro, ma in un film di Lucio Fulci, sono Michael Jordan, invecchiato che gioca a baseball.

Abbozzo un sorriso, dico di capire, ringrazio per l'onestà e me ne torno a casa.
Mi chiudo in cameretta per un paio di ore al buio, poi decido di accendere la TV, ed ecco che mi trovo il Brian Ferry di Suburbia, Mister Fantasy in persona che sprizza energia e verve ad ogni parola, ma vaffanculo Carlo Massarini, va.

Parte "Happy ending", il video nel quale Joe Jackson, con una tipa dal copricapo inguardabile persino per gli standard degli anni '80, canta di persone dal cuore duro, che comunque tutti vogliono un lieto fine. Io in quell'istante mi sarei accontentato anche di un mediocre inizio. Conoscevo quello spilungone stempiato inglese, con i pantaloni eleganti a vita altissima, tenuti sempre da bretelle fuori moda, ma non era quella la canzone di Joe Jackson che mi serviva.
Recupero la cassetta di "Body and Soul" passatami da un mio amico e la faccio scorrere veloce fino al terzo brano, "Not here, not now", dove Joe Jackson tocca i tasti del pianoforte con la delicatezza della pioggia mattutina, e canta parole che sembrano vere, racconta "di sogni infranti,  che cerco di ricostruire ancora" , dice che "gli sguardi potrebbero uccidere di nuovo, e io sono troppo giovane per morire".
Il tutto orchestrato a meraviglia, con la band di sottofondo che si muove come fosse un'unica cosa, e quel flicorno (versione ancora più cool del sax) che ti colpisce di sorpresa, togliendoti il fiato.

La bellisima copertina di "Body and soul", ispirato a quella di "Sonny Rollins, Vol. 2." 

Torno a scuola dopo dopo circa due settimane, è il primo giorno del mio ultimo anno, ritrovo i miei compagni di Londra, ovviamente incrociamo anche la ragazza dagli occhi di cerbiatto, ci salutiamo a malapena. 
Il mio amico lo nota, io gli spiego cosa è successo. In fin dei conti non siamo nemmeno maggiorenni, ma siamo già in grado di dispensare perle di saggezza, balsamo per le ferite dell'anima.
Mi guarda e dice: "Mica sempre è domenica".

Lo so, e chi si lamenta, ma mi bastava anche un eterno venerdì mattina.

giovedì 1 gennaio 2015

Musica # 27 - Shipbuilding



¡Quiero llorar! ¡Dios santo, viva el fútbol, golaaaazo! ¡Diegoooool!!! Maradona! Es para llorar, perdónenme. Maradona, en una corrida memorable, en la jugada de todos los tiempos, barrilete cósmico, ¿de qué planeta viniste para dejar en el camino a tanto inglés?

Victor Hugo Morales commentando il secondo gol di Diego Maradona in Argentina - Inghilterra, Mondiali 1986


Ognuno di noi ha avuto un amico fissato con le compilation, che per anni ha insistito nel farci ascoltare ogni "sua" nuova scoperta musicale, tormentandoci prima con dei "mixtape", poi con dei "cd mix", per arrendersi alla fine davanti all'iPod e a Spotify.

Se nessuno vi ha mai infastidito con questa ossessione, probabilmente quell'amico siete voi.

Io negli anni ho prodotto decine di "mix", che ho distribuito ad amici nuovi e vecchi (alcuni rimasti tali anche dopo l'ascolto), spesso vestendo il cd con parole e copertine personalizzate, ma nessuno incolpi me per il crollo dell'industria discografica, anzi, credo che le mie compilation abbiano alla fine spinto alcuni dei miei amici a comperare dischi che altrimenti avrebbero ignorato.

La creazione di una compilation è una scienza quasi esatta, che si affina con il tempo. Di norma un cd mix può contenere al massimo 2 brani strumentali, da mettere all'inizio, per scaldare i motori,  o alla fine, per un uscita delicata.
Si possono mettere anche dei brevi stacchi parlati, magari a separare  canzoni che difficilmente si potrebbero accostare, non più di 3 secondi di audio, chessò, una frase da Pulp Fiction, uno "tze tze" di Bombolo.
Le canzoni ovviamente vanno soppesate, scelte con cautela, difficilmente c'è una canzone che può essere infilata in tutte le compilation.
Nella mia esperienza pluriennale canzoni del genere non ne ho mai trovate, quella che più si avvicina è "Shipbuilding" di Elvis Costello (che per l'occasione si limita a scriverne "solamente" il testo).

Un Elvis Costello dandy

La canzone è del 1982, scritta durante il conflitto Anglo-Argentino delle Falkland/Malvinas, Costello non racconta "la guerra", ma la speranza amara dei lavoratori dei cantieri inglesi che aspettano nuove commesse per costruire navi a sostituire quelle che il conflitto necessariamente affonderà, assieme a ragazzi soldati, probabilmente figli di quel proletariato che la Thatcher e la sua politica stava annientando.

Quando iniziò la guerra, Luca, il mio amico universitario che spacciava per storie vere le avventure dello Zanardi di Andrea Pazienza, mi disse che non capiva come si potesse litigare per quattro scogli coperti di guano. In realtà la guerra era l'ultima carta del regime Argentino per distrarre il proprio popolo dalla crisi economica sociale che il loro governo aveva causato, la Thatcher d'altro canto non poteva augurarsi un'occasione migliore per poter mostrare i muscoli, per alimentare un po' di orgoglio imperialista, alle prese anche lei con un popolo insofferente alla sua politica.

Io onestamente tifavo più per gli Argentini, ma in entrambe i casi sarei stato felice, una vittoria Inglese avrebbe sicuramente spazzato via il regime di quei generali assassini, mentre una sconfitta della Thatcher probabilmente avrebbe fermato la sua aggressione al proletariato Inglese.

Andò finire che l'Inghilterra chiuse la pratica Falkland in un paio di mesi, umiliando quei generali fascisti, che dopo aver prodotto oltre 30.000 desaparecidos in meno di 10 anni, avevano ingannato la propria nazione mandando al massacro un esercito di ragazzi, probabilmente sapendo già che quella guerra non potevano vincerla. Così la Thatcher ebbe carta bianca per spazzare via la classe operaia Inglese, mentre il regime Argentino accelerò in modo definitivo il suo declino.


Giovani soldati argentini prigionieri, alla fine saranno oltre 10.000

L'Argentina servì il piatto freddo della vendetta 4 anni dopo, ai mondiali di calcio in Messico, quando le due nazionali si incrociarono ai quarti di finale. In quell'Argentina giocava un fenomeno che di nome faceva Diego Armando (ma l'intera squadra era superba), durante tutto il primo tempo i difensori Inglesi riempirono di calci e colpi proibiti Maradona, il quale incredibilmente non solo uscì dal campo con le proprie gambe, ma rimase calmo, senza reagire a quelle provocazioni.

Nel secondo tempo il numero 10 della Blanco Celeste regalò agli Argentini e a tutto il mondo due capolavori, due opere immortali che rappresentano la quintessenza dell'arte calcistica di Maradona. Il primo gol, frutto di un colpo di genio, e di mano, che Maradona, con la solita modestia chiamò "Mano de Dios" e che l'arbitro non vide,  il secondo gol, immaginato dopo una corsa di oltre 60 metri in 10 secondi, saltando 6 avversari e toccando la palla 12 volte, sempre e solamente con il piede sinistro, raccontata in diretta da un tarantolato cronista argentino/uruguaiano, Victor Hugo Morales, cronaca che di per se è un capolavoro.

Ma sto divagando, più del solito, "Shipbuilding" non è solamente una canzone contro la guerra delle Falklan/Malvinas, o contro la Guerra in generale.
Ha una melodia dolce, sulla quale Costello canta con la sua solita voce esile la sua poesia, ad un certo punto si sente il suono di una tromba, è quella di Chet Baker, che davvero da solo vale un paio di giorni di vita. Costello stesso apprezza così tanto queste note pennellate dalla tromba di Chet, che per ringraziarlo (leggenda vuole) gli regala "Almost Blue", altro capolavoro che compare anche nel film "Let's get lost".

Il vero segreto di questa canzone però non è il messaggio contro la guerra, non è nemmeno la melodia né la tromba di Chet Baker, ma è una frase che si ripete due volte, a metà della canzone e alla fine, una frase che se ascoltata (non solamente sentita) può "cambiare" la vita (aspettando che venga copiata+incollata da Fabio Volo). 
La frase è "Diving for dear life/When we could be diving for pearls", che io ho sempre inteso come invito a non immergersi (nella vita) per sopravvivere, a non sprecare la vita, ma immergersi per cercare perle, la bellezza che ci circonda.
La bellezza ovunque, in una canzone, in un libro, nel sorriso di una passante, negli occhi grigi di un angelo biondo che ritrovi dopo quasi vent'anni, la poesia di un cielo stellato, di un bicchiere di Porto, di un viso invecchiato con grazia.

Se poi riuscite a trovare la bellezza anche in coda alle Poste mentre cercate di pagare una bolletta scaduta da due settimane, chiamatemi, ne possiamo parlare.