sabato 28 marzo 2015

Cane di paglia

Vivo in guerra per morire in pace 
È la sola regola per chi sta qua 
Quando un cane di paglia brucia di rabbia 
Esplode tutta la città 

Cane Di Paglia - One Mic


Uno dei tanti paradossi  di Venezia riguarda il cinema, nonostante ospiti uno dei più antichi festival del cinema del mondo (una volta anche tra i più prestigiosi)  le sale cinematografiche cittadine hanno corso il reale rischio di estinguersi.

A tenere in piedi un'attività tanto dispendiosa in termini di metri quadri, in una città lentamente trasformata in un gigantesco "mole", è stata la pubblica amministrazione, cioè le varie giunte rette da faccendieri comunisti, che hanno restaurato e infine restituito alla cittadinanza tre cinema ( due a Venezia è uno al Lido). 

A metà anni novanta, quando le sale cinematografiche di Venezia iniziarono a cadere come tessere di domino, gli  illuminati imprenditori veneziani, discendenti da generazioni di mercanti e  mecenati, dimostrarono di essere nani su spalle dei giganti, e volsero lo sguardo altrove, tutti presi a lamentarsi del declino della città e della qualità (intesa come portafoglio) dei suoi  visitatori.

Come già saprà il ristretto manipolo dei lettori di questo blog, grazie alla mia passione per la settima arte, sono riuscito a vedere film in gran parte dei cinema veneziani. Due su tutte le sale alle quali ero più affezionato, il cinema Accademia, e il cinema Olimpia.

In realtà i due cinema erano gemellati, nel senso che avevano la stessa gestione, io, a forza di assidue frequentazioni, finii per fare amicizia con un paio di ragazzi che si alternavano alla biglietteria.  Erano due tipi poco più grandi di me, molto colti e non proprio dei "tombeurs des femmes"

Assieme ad altri personaggi di spessore simile portavano avanti una delle tradizioni più tristi che abbia mai visto, ogni 31 dicembre raggiungevano il ragazzo di turno al cinema Olimpia, poi alla fine della proiezione dell'ultimo spettacolo, aspettavano la mezzanotte tra le poltrone della sala ormai vuota, per brindare con una bottiglia di prosecco.

Erano tutti cinefili colti, appassionati  dei discorsi fuori sincrono con i quali Enrico Ghezzi farciva i minuti morti del suo "Fuori Orario", ma in fondo avrebbero bruciato la pellicola originale di "Zabrinski point" pur di vedere Maurizo Merli nel sequel del primo "Mannaja". Credo che proprio per questo, uno dei tipi, non mi ricordo chi, se ne era venuto fuori con un sistema di classificazione che il gruppo di amici applicava esclusivamente ai film d'azione: D, DD e DDD.

"D" stava per "daghe" (cioè il romanesco daje), sibilato a denti stretti quando l'eroe del film iniziava a menare le mani (diciamo la classica situazione del primo tempo di un qualsiasi film di Bruce Lee).

Il "DD", ovvero Daghe Dio, veniva invece esclamato con più energia, quando il paladino del film iniziava ad alzare la testa dopo aver subito qualche piccola angheria (diciamo la situazione che spesso si vedeva nel secondo tempo dei film di Bruce Lee). 

Infine c'era il "DDD", ovvero l'urlo non più trattenuto di Daghe Dio Daghe!, a volte accompagnato da entrambe le mani appoggiate ai braccioli della poltrona e con il corpo proteso verso lo schermo. Rarissimamente tra la seconda è la terza "D" si aggiungeva una "C", per "can" (sempre in Veneto, non in inglese), però essendo i componenti del gruppo tutti di formazione cattolica si trattava di situazioni estremamente rare.

Anche il  "DDD" semplice, per una convenzione non scritta, veniva usato con una certa parsimonia. I film degni di un pieno "DDD" si potevano contare sulle dita di una mano, e comunque prima di ottenere tale certificato erano  sottoposti ad attente analisi e  a veti incrociati. 

Personalmente non ho mai partecipato ai loro cineforum, ma per me l'unico film degno delle tre "D", incluse  le mani sui braccioli, è "Cane di paglia".

Il film, il cui titolo originale era "Straw dogs", cioè "Cani di paglia", inizia con una frase apocrifa di Mao Tse-Tung, qualcosa tipo "Alcune persone trattano gli altri come fossero cani di paglia, ma a volte anche la paglia si incendia". Non ho trovato nessuna conferma che una frase del genere sia davvero di Mao, ma all'epoca al grande timoniere cinese venivano attribuite decine di citazioni, spesso infondate, un po' come fa adesso il "popolo della rete" con le buon anime di Sandro Pertini e Mark Twain. A dire il vero la paternità della frase data a Mao è plausibile, visto che l'immagine retorica del "cane di paglia" è ben radicata nella cultura cinese, sostanzialmente sono figure destinate al sacrificio, ma che vanno sempre trattate con un certo rispetto, perché un po' si possono incazzare, come dice il filosofo cinese padre del Taoismo Lao Tzu: "Heaven and Earth ade ruthless and treat the  myriad creatures as straw dogs" (Non so voi, ma io a questo punto non ci sto capendo più nulla).


Gli interpreti del film sono un giovane Dustin Hoffman, che interpreta un mansueto professorino di matematica, e una giovanissima, bellissima, Susan George , nella parte della moglie sexy, la regia è di un ispirato Sam Peckinpah, nel pieno della sua vita artistica e ancora non rovinato dell'alcol e dalle droghe. 

Per chi non l'avesse ancora visto, il film racconta di questa coppia che va in vacanza nella casa d'origine della moglie, in un paesino sperduto dell'Inghilterra. I bulli della zona, tra i quali l'ex fidanzatino di Susan George, iniziano a farsi gioco del professore, lo insultano, fanno delle pesanti allusioni nei confronti della moglie e arrivano addirittura a violentarla. 

Non sei nemmeno a metà film che inizia a salirti la rabbia, speri che il giovane Dustin alzi la testa, si ribelli, si difenda. Ti ritrovi a dire a denti stretti "Daghe"' e poi "Daghe Dio", ad un certo punto i teppisti esagerano e provano ad entrare nella casa del professore e allora lui "sbrocca" e si incazza come solamente un uomo tranquillo può fare, tu finalmente urli "Daghe, Dio, Daghe!", con le mani appoggiate sui braccioli della poltrona e vuoi bene a quell'uomo. I bulli diventano il tuo vicino che puntualmente lascia l'immondizia per strada dopo che lo spazzino è passato, il solito furbo che ti taglia la coda al supermercato, il commerciante al quale devi chiedere lo scontrino almeno un paio di volte, l'abusivo che ti vende i bastoncini per i selfie e lo scontrino non sa nemmeno cosa sia.

Alla fine il professore diventa una bestia, un cane di paglia che si incendia, e fa fuori tutti gli aggressori, neanche fosse Maurizio Merli, e quando partono i titoli di coda ti senti soddisfatto.

Inutile dirlo, ma quei due cinema sono mai chiusi da anni, i capodanni più tristi del mondo non si fanno più da un bel po', a pensarci adesso non erano poi così male. 

Ora il Cinema Olimpia  è un "elegante" teatro per turisti, mentre di recente il Cinema Accademia ha dato segni di vita, nel senso che dopo anni di chiusura, i proprietari, la famiglia Guetta Finzi, hanno iniziato a restaurarlo. Non ho idea di come rinascerà, forse diventerà  boutique di lusso, o forse un ristorante con la pasta e fagioli a 40 euro al piatto

In ogni caso Dustin, se leggi il post, potrebbe servirmi il tuo aiuto.

 

    

mercoledì 18 marzo 2015

Mah-nà Mah-nà

"Capitale Stoccolma, un milione e mezzo di persone, con un reddito medio di un milione e mezzo di lire all'anno. Cinquecento telefoni e trecento venti televisioni ogni mille persone. Il che farebbe supporre che uno svedese medio passi metà del suo tempo a telefonare e un altro terzo davanti al video" 
"Svezia, Inferno e Paradiso"  1967 

L'unico aspetto positivo dell'aver perso i genitori attorno ai 20 anni (un po' prima e un po' dopo) è che, nel mio caso, ho risparmiato loro lo spettacolo triste del mio decadimento. Li ho salvati dal vedermi spiaggiato nella seconda parte della mia vita come una balena qualsiasi, incastrato nelle secche del mio virtuale Bacàn (per i non veneziani, il Bacàn, quello vero, è la  zona della laguna  davanti alla bocca di porto tra il Lido e Punta Sabbioni).

Eppure la mia infanzia sembrava presagire un futuro più roseo e ricco di soddisfazioni.  Alla fine del mio penultimo anno d'asilo  le maestre suggerirono ai miei genitori di farmi saltare l'ultimo anno e di iniziare subito la prima elementare. Niente male, a soli  5 anni ero già motivo di  orgoglio di mamma e papà. 
All'epoca però la scuola pubblica non permetteva di iscriversi in prima elementare con un anno d'anticipo,  l'unica opzione era  una scuola privata, gestita da suore, abbastanza esclusiva e anche costosa. Per i soldi in qualche modo i miei si sarebbero  arrangiati, ma per entrare in quella scuola serviva un pedigree che la mia famiglia non possedeva, senza contare che  mio padre era tesserato PCI fin dal 1945 e non avevamo nessun zio prete. 

Ma essendo sempre stata una persona corretta e generosa, mio padre  aveva molti amici trasversali, tra i quali un notabile democristiano, una specie di eminenza grigia della zona che mise una buona parola e mi fece entrare saltando la lista d'attesa. Così a cinque anni e 7 mesi varcai il portone della scuola elementare "Imelda Lambertini", famosa  per la professionalità delle suore/maestre e per usare il metodo Montessori.  
Gran parte dei miei compagni erano figli di professionisti, un paio abitavano sul Canal Grande, un bambino, il cui padre era un diplomatico, aveva il salone di casa, solamente il salone, che misurava 100 metri quadrati, quasi il doppio dell'intera casa mia. C'erano  anche bambini che provenivano da famiglie normali, come Michele, che divenne il mio compagno preferito fin dai primi giorni. 

Andavamo d'accordo su tutto, anche sulla squadra di calcio, l'Inter, ed eravamo così in sintonia da non litigare nemmeno sulla scelta dei nostri idoli, ovviamente attaccanti, lui scelse Alessandro "Spillo" Altobelli, io invece Carletto Muraro, da Ghezzo, Padova.Qualche anno dopo, nell'estate del 1982, l'idolo di Michele, Altobelli, alzava la coppa del mondo in una magica notte di Madrid, mentre il mio eroe, ormai figurante in squadre di provincia,  mangiava una pizza  in qualche ristorante di Bibione. Giusto per far capire che c'è sempre qualcuno (io)  più interista di qualcun altro. Negli anni '70, in attesa dell'arrivo delle reti private, la TV dei ragazzi era ben poca cosa, essendoci solamente la RAI non avevamo altra scelta, perciò tutti i bambini guardavano lo stesso programma. 

Una mattina  durante la ricreazione  io e Michele ci ritrovammo a fischiettare la stessa canzone, sentita appunto il giorno prima durante una trasmissione per bambini. Ma facciamo un passo indietro. Ad inizio degli anni sessanta scoppiò un fenomeno cinematografico tutto italiano, il cosiddetto  "mondo movie", il cui capostipite fu  il "meraviglioso" lungometraggio di Gualtiero Jacopetti, "Mondo cane" dal quale il genere prese appunto il nome. Si trattava di una serie di finti documentari nei quali si potevano vedere (presunte) nefandezze di ogni tipo, perversioni sessuali impensabili per l'Italia democristiana di quegli anni, situazioni ovviamente fasulle, ma  pruriginose abbastanza per fare incassare a quei film miliardi di lire

 

Una delle pellicole più famose di questo genere, fu sicuramente "Svezia, inferno e paradiso", dove la voce fuori campo di Enrico Maria Salerno commenta le immagini girate da Luigi Scattini, raccontando un mondo freddo, popolato da fanciulle bionde e disinibite, tristi e senza anima, con una serie di situazioni che dipingono  la decadenza morale di quello stato socialista. 
Scene dove  le donne bionde preferiscono africani virili agli emigranti italiani, dove si mostra uno stupro  (ma come? Non era un documentario?)  da parte di alcuni motociclisti su di una fanciulla minigonnata (qui la voce fuoricampo recita che a causa dei frequenti stupri molte ragazze diventano lesbiche, giuro che lo dice per davvero), e dove i giovani prima vanno a scuola di educazione sessuale e poi alla sera fanno pratica. 

La cosa migliore del film è la straordinaria colonna sonora scritta dal maestro toscano Piero Umiliani, che nasconde una perla che rischiò quasi di non vedere la luce, al punto da essere presente solamente nella  versione americana del disco, uscita l'anno successivo in concomitanza con la distribuzione del film negli USA. Ho letto da qualche parte che fu un bambino, in visita al padre, tecnico del suono dello studio dove si stava  analizzando il materiale arrivato dall'Italia, che scoprì questo pezzo, successivamente ribattezzato e pubblicato dall'editore americano come  Mah-nà Mah-nà. Non so se la storia de ragazzino sia vera, quel che certo è che il successo di questo pezzo arriva grazie a  Jim Henson, infatti in qualche modo il brano arriva alle sue orecchie e lui lo fa interpretare, la sera del 27 novembre del 1969, durante la  14° puntata di Sesame Street Fever, da un suo pupazzo nuovo, da allora noto come Mahna Mahna. Esplode la Mahna Mahna mania che contagia tutte le radio americane e rende quei due minuti scarsi un successo planetario.
 

Qualche anno dopo, nel 1976, in occasione della prima puntata della serie The Muppets Show, il brano ritorna, questa volta Mahna Mahna è accompagnato da due vocalist, ovviamente pupazzi, The Snowths. Ed è in quella puntata che io e Michele sentiamo la canzoncina che stiamo fischiettando quella mattina.

Siamo vicini a Pasqua, e suor Adeodata (oppure suora Deodata, non mi mai capito come si scrivesse), la nostra maestra nata nel 1927 a Caorle, ci assegna un compito facile, da fare in coppia: un disegno che rappresenti la resurrezione di Cristo. Io e Michele ci mettiamo subito al lavoro, disegnamo una grotta dalla quale esce Gesù, iniziamo a colorarlo, poi ci guardiamo e compiamo il   primo atto goliardico della nostra vita, nella parte lasciata bianca del cielo scriviamo "Mahrabara, tuturutu!" (Sbagliando ovviamente lo spelling).

Quando consegnamo il disegno tratteniamo le risate a fatica, ma già alla sera mi pento amaramente di quella bravata.

Il giorno dopo la suora ci accoglie con un sorriso che non promette niente di buono, quando consegna i disegni siamo gli ultimi ad essere chiamati, ci trasciniamo come due piccoli condannati a morte davanti al plotone d'esecuzione, arrivati alla cattedra ci dice che il disegno è molto bello e che ci meritiamo un 8. Mentre ci guardiamo stupidi, la maestra spiega al resto della classe che "Mahrabara" vuol dire benvenuto in aramaico (così almeno sostiene lei), però, e si rivolge a noi, non capisce il significato di "tuturutu".  In fin dei conti sono un bambino prodigio, ho saltato una classe mica per niente, guardo la suora e improvviso, le spiego che è il canto degli uccellini a primavera. La suora ci casca, e torniamo ai nostri banchi orgogliosi del nostro colpo di genio.

 

La scuola elementare Imelda Lambertini ha chiuso anni fa, probabilmente a causa del calo  delle vocazioni (niente suore, niente maestre) o forse è stata colpa del crollo delle  nascite in città, forse i costi erano insostenibili, anche se il palazzo è vuoto da allora. Non ne ho idea, ma al posto della targa con il nome della scuola adesso c'è un buco sull'intonaco, una specie di ferita non rimarginata.

Michele lo incrocio ogni tanto tanto, abita ancora a Venezia, e ovviamente è ancora interista, nel 2010 è riuscito ad andare a Madrid per assistere alla finale di Champion's Vinta dall'Inter, a conferma che non tutti gli interisti sono uguali.

Io invece, con buona pace dei vincenti, di chi ha "l'occhio della tigre", ho deciso di stare fermo, a volte quando la vita ti fa spiaggiare su secche impreviste non c'è nulla da fare, se non aspettare l'alta marea. 

Al limite, nell'attesa, fischietto. 

venerdì 13 marzo 2015

To love is to bury

I buried him down by the river 
'cause that's where he liked to be 
and every night when the moon is high 
I go there and weep openly   

To love is to Bury - Cowboy Junkies


 La perfezione esiste, la incontriamo spesso, quasi ogni giorno, il problema è che quasi mai siamo preparati, perché nella nostra limitata e imperfetta mente La Perfezione è qualcosa di astratto, di irraggiungibile, di perfetto appunto. Nella migliore delle ipotesi, quando quell'attimo ci si materializza davanti siamo distratti, e non riusciamo a capire che non ci sarà nulla di migliore, che siamo già arrivati davanti al capolavoro che non si può superare. Tra le poche doti di cui mi posso vantare, oltre ad un discreto senso dell'orientamento, c'è quella di saper riconoscere un capolavoro, un'opera perfetta quando ce l'ho difronte. Certo si tratta di un dono quasi inutile, preferirei sapere elencare in ordine alfabetico le capitali europee ruttando, oppure riuscire ad imitare alla perfezione Bombolo, ma questo è quello che ho, come una volta disse Arthur Ashe: "Start where you are. Use what you have. Do what you can" 

Comunque riconoscere un capolavoro nel preciso momento in cui lo stai vivendo, può anche essere una bella cosa. Tempo fa ho conosciuto una persona, per 3 giorni mi sono perso nei suoi  occhi azzurri, ho vissuto in un mondo perfetto, con unicorna rosa e sguardi magici. In quel preciso momento sapevo che quello che mi stava accadendo era un miracolo di perfezione, l'allineamento dei pianeti che capita esattamente quando l'album Tabula rasa elettrificata dei CSI è primo in classifica e Mourinho fa vincere il triplete all'Inter. Ero Elliot Smith ottimista (per gli amanti della retorica, dicesi "ossimoro") che riscrive "I didn't understand" cambiando l'ultima parte della strofa "once talked to me about love/ And you painted pictures of a never never land / And I could have gone to that place / But I didn't understand" in "I did understand". L'avevo capito, eccome se l'avevo capito, ma saperlo mi ha fatto viverlo in modo diverso? Forse si, ho respirato ogni secondo di quei giorni come fosse l'ultimo, non perché interista e dunque convinto che le cose belle non possano durare, ma semplicemente perché sapevo che stavo vivendo un momento perfetto, che forse sarebbe diventato qualcos'altro, ma l'unico modo per salvarlo era quello di conservarlo in un posto sicuro della mia memoria, dove andare nei giorni tristi che (puntualmente) sarebbero arrivati. 

Quando mia sorella decise di  lasciare casa e trasferirsi in un appartamento con alcuni amici io , come un piccolo pesce pilota, mi accodai alla sua conquista di libertà ed iniziai a passare sempre più tempo, soprattutto di sera, nella  nuova casa assieme ai suoi coinquilini. Le serate non erano nulla di speciale, qualche cena, partite a mahjong, se capitava un film in VHS (avrei voluto dire betamax, ma i suoi coinquillini non erano cosi eccentrici). Già  mi bastava questo per sentirmi meglio, l'importante era stare il più a lungo possibile lontano da casa mia, dalla sedia  vuota di mia madre, da quella voragine che mi stava inghiottendo. I tipi che abitavano con mia sorella erano vecchi, attorno ai 30 anni, diversi da qualsiasi altra persona che conoscevo all'epoca, con una cultura musicale, e non solo, diversa dalla mia. Per un certo periodo la colonna sonora di quelle serate fu un vinile di una band canadese a me sconosciuta, tali Cowboy Junkies. Quelle ore passate in loro compagnia erano perfette anche se non soprattutto per quella musica. Ad un certo punto pensai che non ci potesse esserci nulla di migliore la fuori, nella vita, che fosse inutile cercare qualcos'altro, perche già mi trovavo davanti alla Perfezione.
Saltò fuori, senza nemmeno sorprendermi troppo, che dalla vita avrei potuto ottenere  qualcosa di più,  semplicemente perché  non hai scelta, anche se non vuoi, devi continuare a camminare, non importa se pensi di aver trovato la perfezione e vorresti restare in quel momento per sempre. 

Da codardo come sono però scelsi di non muovermi, almeno per quanto riguarda la musica dei Cowboy Junkies, da quel disco,  "The trinity session", convinto che  non sarebbero riuciti a fare nulla di migliore, una volta che sei arrivato in cima ti fermi, oppure inizi a scendere. Io, con loro, decisi di fermarmi, e non volli ascoltare nulla dei loro lavori successivi. Quello era il secondo disco dei Cowboy Junkies, una band formata quasi interamente dai membri della famiglia Timmins: Michael, Peter e la loro splendida sorella  Margo alla voce. Che fosse splendida  l'avevo deciso io, perché l'unica pecca di quel disco era la mancanza di fotografie, ad eccezione di quella  molto fumosa della copertina, dove si intravedevano i fratelli Timmins e Alan Anton, bassista della band. Ma con una voce del genere, che ti faceva innamorare dopo i primi 30 secondi,  non potevi che immaginarti una creatura dalla bellezza  angelica. 

La  genesi del disco è una storia nella storia, registrato in presa diretta nella chiesa della "Santa Trinità" di Toronto (da qui il titolo "The trinity session") con i musicisti messi a cerchio  attorno ad un unico microfono. Il soffitto a volta di legno della chiesa è l'arma segreta che rende l'acustica impeccabile, l'atmosfera eterea quanto basta, senza sovraregistrazioni o effetti speciali in fase di remix. L'intesa tra la band e i musicisti ospiti, incluso un quarto fratello Timmins, John, è perfetta,  confermato dal fatto che, stando alle note interne del disco, tutti i pezzi vennero registrati in un unica sessione il giorno 27 novembre 1987. 

Leggendo su Wikipedia pare che il brano che apre il disco, "Mining for gold" 94 secondi di sola voce, sia stato registrato qualche giorno dopo da Margo durante la pausa pranzo presso la "Toronto Symphony Orchesta" dove immagino la bella cantante lavorasse.  Mentre uno dei pezzi più riusciti, "Misguided Angel", fu registrato in extremis, quasi a notte fonda, dopo aver strappato altre due ore di affitto della chiesa allungando 25 dollari al guardiano. Il disco ha 12 brani, in parte originali e in parte cover, tra tutte la più nota è  "Sweet Jane" che spinse le vendite del disco, e che resta a tutt'oggi il loro più grande successo.  Ma il disco nella sua interezza è meraviglioso, uno di quei 10 da portarsi in un isola deserta. Da ascoltare almeno un paio di volte al mese, possibilmente quando fuori è già buio, perché questo è un disco notturno, da luci soffuse e tappeti persiani. 

Difficile dire quale brano sia il migliore, probabilmente per me è quello che da il titolo a questo post "To love is to bury" (usato anche dai quei buontemponi degli sceneggiatori di "True blood" per un episodio della saga), che racconta, con un pizzico di ironia, la storia di un amore finito male. Pochi giorni fa Leonard Nimoy, ovvero il signor Spock, se ne è andato, alla bellezza di 83 anni (a dispetto dello stupore e di tutti i vari RIP che ho letto in giro, direi che non gli è andata così male). Il suo ultimo tweet è una di quelle frasi che farebbero la gioia di Fabio Volo, ammesso che riesca a capirla, dice una cosa tipo: "La  vita è come un giardino. Si possono avere dei momenti perfetti, ma non conservarli, se non nella memoria". 
Muoversi sempre, continuare a scoprire cose nuove, ad eccezione degli album dei Cowboy Junkies ovviamente, se si incontra la perfezione bisogna essere pronti a  riconoscerla, a viverla e poi a ricordarla, ma non si deve essere così stupidi da pensare che possa durare per sempre, che si possa ripetere. 
E se si naufraga in un paio di occhi azzurri pazienza, la perfezione può aspettare. 

Live long and prosper