lunedì 28 aprile 2014

Libri # 1 - La linea d'ombra

Ma il terribile era che non sentivo che la mia voce. 
Specialmente di notte risuonava solitaria tra le superfici delle vele immobili.

La linea d'ombra - Joseph Conrad


Joseph Conrad è uno dei mie scrittori preferiti, sono pure riuscito a leggerlo in Inglese, capendolo. Non so se questo sia un bene per me oppure un male per lui.

Forse perché non è madrelingua inglese, il suo modo di scrivere è lineare, semplice, senza però rinunciare a racconti densi, popolati di personaggi pieni, completi.

Le sue storie ci portano in mondi esotici, lontanissimi per noi anche adesso, ancora di più per il lettori di inizio '900. Tutto sommato fa quello che in Italia faceva Salgari, sicuramente in modo più sobrio, forse inventando un po' di meno, ma anche i suoi lettori si trovano trasportati nei posti più remoti del pianeta, alla presa con la forza della natura e, soprattutto, con la natura degli uomini.

Ma laddove Salgari "sbraca", inserendo imprese improbabili in paesaggi affascinanti, Conrad obbliga i suoi personaggi a i viaggi introspettivi, dove l'ambientazione avventurosa è spesso la scusa e non il fine della sua narrazione.

Il suo libro che mi piace di più è "Cuore di tenebra", anche nella versione cinematografica di Francis Ford Coppola (Apocalypse now), mentre quello che in qualche modo mi ha colpito maggiormente è "La linea d'ombra".



La linea d'ombra (and friends). Venezia


In questo romanzo breve (o racconto lungo, vedete voi) la dimensione avventurosa è limitata ai minimi storici, certo il vascello al quale viene offerto il comando al protagonista del libro si trova  a Bangkok, il suo equipaggio viene colpito da una febbre tropicale (quasi) letale, ma di fatto l'azione non c'è.

Gran parte del libro racconta l'attesa della fine della bonaccia che tiene la nave ferma, immobile a largo nel mare Tailandese. In questa situazione di stallo, con l'equipaggio inerme e con il rischio di impazzire, il giovane capitano riesce a resistere grazie all'aiuto del cuoco.

Per sapere come va a finire leggete il libro, è corto, oppure cercate on line.

In ogni caso questo è il libro del passaggio all'età adulta di un giovane capitano, che parte ragazzo e torna uomo, dopo due settimane nella zona grigia, nella linea d'ombra.

Le linee d'ombra ci sono anche adesso, anche se le fasi dell'età  sono cambiate radicalmente per le ultime generazioni.

Una volta era tutto più semplice, di solito l'infanzia finiva con la scuola dell'obbligo (quinta elementare), l'adolescenza più o meno morbida (molti ragazzini e ragazzine iniziavano a lavorare a 13 anni) finiva bruscamente con il servizio militare per gli uomini e con il matrimonio per le donne.

Adesso l'adolescenza si allunga a dismisura, basta dare un'occhiata alle pubblicità in TV, dove trentenni con barba e occhiali usano un lavatrice come ghiacciaia (hai visto mai che lavarti da solo la tua maglietta righe ti renda uomo) e supera indenne matrimoni o figli, uno sguardo veloce ai profili FaceBook di qualche maggiorenne vi darà un bel repertorio di adolescenti eterni, intrappolati in selfie senza speranza.

Per chi si rassegna alle differenti fasi della vita resta difficile capire però, quando la vivi, dove si trovano le linee d'ombra, i momenti in cui le cose cambiano.

Io, il mio passaggio definitivo dall'infanzia all'adolescenza, cioè l'attimo in cui le ultime mie briciole da bambino sono state spazzate via, me lo ricordo, così come quello all'età adulta, avvenuto pochi anni dopo quello, sempre attorno a Natale. Ma quella è un'altra storia.


Al primo anno delle superiori avevo fatto amicizia con un mio compagno di classe, eravamo diventati inseparabili, e anche adesso, che non ci vediamo più così spesso, abbiamo sempre un legame particolare.

Per Natale decidemmo di farci dei regali, così passammo tutto il pomeriggio in giro per negozi e mercatini cercando qualcosa di carino, verso sera ormai avevamo già fatto i nostri acquisti.
Passammo davanti ad un tizio circondato da gente, stava vendendo un giocattolo stupefacente, si trattava di un vermiciattolo rosso di stoffa/velluto che strisciava sulle sue mani, arrampicandosi sulle dita.

Non potevamo credere ai nostri occhi, così appena il vermiciattolo apparentemente si stancò e finì in tasca la tipo decidemmo di prenderne uno anche noi, sapevamo che non poteva essere vero, ma sicuramente ci doveva essere qualche meccanismo super high tech lo faceva muovere, o forse no.



 
Magic worm, aka Sir Biss



Esatto, forse no.

Corremmo subito a casa per vedere come funzionava quella diavoleria, e scoprimmo la verità (attenzione, spoiler alert, se avete intenzione di comprane uno saltate questa parte!!).

L'incredibile esserino animato si rivelò essere fatto di "peluche", all'interno della busta trovammo anche il portentoso meccanismo che lo rendeva animato, cioè un filo di nylon sottilissimo, un capo veniva nascosto nella fibbia della cintura mentre l'altro andava legato al "naso" del vermiciattolo, le istruzioni allegate spiegavano come muovere le mani per farlo sembrare vivo.

Non fu un bel momento, lasciammo il vermiciattolo in cameretta mia e con le pive nel sacco uscimmo di nuovo.


Quando passammo vicino al tizio che ce l'aveva venduto c'era la solita folla, lui incrociò il nostro sguardo, non credo ci riconobbe, ma ci disse:  "L'avete già comprato voi, vero?". Perché aveva capito dai nostri occhi che la magia era svanita, che il trucco per noi era stato svelato.


Credo sia quello che capita quando si smette di essere bambini.

mercoledì 23 aprile 2014

Musica # 10 - Wish you were here


How I wish, how I wish you were here
We're just two lost souls
swimming in a fish bowl
Year after year,
running over the same old ground
What have we found?
The same old fears.
Wish you were here.


Wish you were here - Pink Floyd


Avevo incontrato Christopher nell'ostello a Parigi nel quale stavo con la mia classe durante una gita scolastica, o come si direbbe adesso, durante un   viaggio d'istruzione.

Lui era il classico backpacker, con tanto di zaino, chitarra e capelli lunghi. Era arrivato da poco dal Canada e sarebbe rimasto altri 6 mesi in Europa. Aveva la faccia simpatica, gli occhi azzurri ereditati dal padre Irlandese e una voglia di conoscere uguale alla mia.

Mi disse che sarebbe venuto dalle mie parti in estate, e così a metà giugno arrivò a Venezia con Mark, il suo compagno di avventura che nel frattempo l'aveva raggiunto.
Andammo in giro per calli e canali per 3 giorni, poi ripartirono per un'altra meta, con la promessa di riverdersi in Canada prima o poi, promessa mantenuta poco tempo dopo, perchè a fine Ottobre di quell'anno arrivai a Vancouver.

La sua famiglia abitava nella classica grande casa di legno, due piani con piccolo giardino davanti e uno sul retro, e un basement dove dormiva Christopher e dove mi piazzai anche io.

Il mattino dopo il mio arrivo vidi per la prima volta in vita mia l'Autunno. Decine, centinaia di alberi stavano cambiando colore, le foglie sui rami e per terra coprivano una gamma di colore che andava dal giallo ocra al rosso burgundy.
L'aria era cristallina, la luce tersa, il cielo azzurro sullo sfondo sembrava bidimensionale, con gli alberi appoggiati sopra.
Ester, la madre, era dolcissima, per tutta quella settimana mi fece sentire come una specie di figlio.  


Albero e lampione, Ottobre, Vancouver
Essendo fine Ottobre era anche il periodo di Halloween, il primo (e l'ultimo) che passai da professionista, cioè in un posto dove lo fanno per davvero, e non dove viene imposto dalla Heineken.
Come tradizione intagliammo la zucca che sarebbe stata messa sulla veranda la sera del 31 ottobre per avvisare tutti i bambini della zona che in quella casa ci sarebbero stati dolcetti ad aspettarli.

La notte di Halloween indossammo un costume, ma eravamo troppo grandi per fare "trick or treat", perciò quella sera saremmo andati ad una festa nella casa di un conoscente di Christopher.

Passammo da Mark dove ci aspettavano altri amici, un tizio tirò fuori un sacchetto trasparente con dentro quello che sembrava essere del tabacco gigante e disse: "Let's have a magic mushrooms tea!", tutti accettarono con entusiasmo.
Io, che fino ad allora consideravo trasgressivo bere due Ceres di seguito, non battei ciglio. Sono di Venezia, che ve lo dico a fare.

Bevuto il tea ci incamminammo alla ricerca della festa, c'era un problema però: Christopher non era proprio sicurissimo dell'indirizzo, così iniziammo a fare dei tentativi, andando a caso in giro per il quartiere.

Si era fatto molto buio ed era calata una nebbia fittissima, al punto che si riusciva a malapena a vedere la luce del lampione che ci stava sopra la testa, mentre quello successivo veniva inghiottito dalle tenebre, sembrava di stare in un film dell'horror.

Di tanto in tanto, silenziosa come un vascello fantasma, ci passava vicino a passo d'uomo una macchina della polizia, annunciata dalla fredda luce blu della sirena muta, credo fosse routine per notti come quelle, ma non nascondo che mi metteva un po' a disagio.

Stavamo camminando da quasi un'ora, avevamo visitato un paio di case, ma la Festa non si trovava da nessuna parte, in più questi funghi allucinogeni non stavano funzionando. Per fortuna Mark, che ci stava guidando verso l'ennesima casa, aveva con sè della birra, gli chiesi una lattina, lui si girò e me ne allungò una, mi accorsi per la prima volta che assomigliava stranamente a Robert Redford. Quando scoppiai a ridere, lui mi chiese che cosa ci fosse di così divertente e nonostante fosse davanti a me la sua voce mi arrivò dalle spalle.
In quell'ultimo barlume di lucidità capii che i funghi non erano un bluff.

Ovviamente anche la terza casa si rivelò vuota, la Festa stava diventando la nostra Moby Dick. Dopo un'altra mezzora, durante la quale il buio si fece ancora più buio, la nebbia ancora più nebbia e la macchina della polizia sempre più minacciosa, iniziammo a camminare su di un marciapiede che era separato dalla strada per tutta la sua lunghezza da una larga striscia di erba, che entrava direttamente nell'asfalto, senza il classico cordolo. 
Sembrava che il prato venisse inghiottito da quella lingua scura di asfalto, che ai miei occhi diventò un canale di Venezia, anzi, ora che guardavo meglio, tutte le strade erano diventate canali. Minchia se funzionavano questi funghi.
E mentre spiegavo in italiano ai miei amici come funzionava il trasporto nella mia città arrivammo finalmente alla Festa.
La luce usciva dalle finestre di un'enorme casa di 3 piani, bucando in qualche modo la nebbia. La Festa era al suo culmine, gente ovunque, musica a palla, stava venendo così bene che dopo un paio di minuti arrivarono le volanti della polizia e sulla casa calò il silenzio, quella sera imparai il significato della parola "busted".


Decidemmo che era arrivato il momento di tornarsene a casa, 
ovviamente non c'era fretta, perciò facemmo un giro ancora più largo, ad un certo punto attraversammo una specie di bosco, io saltavo sull'erba, rimbalzando ogni tanto su di un albero, tutto era così morbido e buio, sembrava un sogno.
Per togliermi ogni dubbio presi un pezzo di carta da terra e me lo misi in tasca, se l'avessi avuto ancora il mattino successivo avrei avuto la  certezza che non stavo sognando. Inutile dire che la serie di ematomi che mi ritrovai l'indomani resero la scoperta del pezzo di carta in tasca superflua.

Arrivati a casa ci rifugiammo nel basement, il mio letto era un materasso messo sul pavimento, con il cuscino esattamente in mezzo alle due casse dello stereo. Christopher pensò bene che non era troppo tardi per ascoltare della musica, così mise sul piatto un disco che non conoscevo.
Nel buio di quella stanza la cassa fece uscire un suono timido, ovattato, ma poi dopo qualche secondo la chitarra suonò per davvero, da tutte due le casse, e riempì la stanza.

Così la prima volta che ascoltai "Wish you were here" ero sdraiato tra due casse, con dei funghi allucinogeni che giocavano a nascondino con il mio cervello. Per tutta la durata di quel vinile il mio corpo fluttuò in aria, riuscii a sentire la musica con ogni singola cellula del mio corpo, come fosse anche quello un sogno.

Lasciai Vancouver dopo qualche giorno, non parlammo più di quella serata, ma ogni lettera che ci scrivevamo finiva sempre con "Wish you were here".
Col tempo le lettere divennero sempre più rade, fino a quando mi dimenticai di rispondere all'ultima che mi scrisse.


Pochi anni fa ricevetti una telefonata, era la madre di Christopher, si trovava a Venezia con il marito, aveva conservato il mio numero (era già venuta a visitarmi subito dopo il mio ritorno in Italia), mi disse che aveva fatto un tentativo, quasi convinta che quel numero non funzionasse più.

Passai il pomeriggio con loro, Ester mi raccontò del figlio, con gli occhi di una madre innamorata. Christopher si era traferito in un isola vicino a Vancouver, conduceva una vita un po' bizzarra, un misto tra l'artista e l'eremita. Aveva
una curiosità della vita straordinaria,  una intelligenza  seconda solamente alla sua sensibilità, e questo l'aveva fregato. Per non sbagliarmi, io da un'isola non mi ero mai mosso. Così vicini, così lontani, entrambi circondati dall'acqua, come in una fish bowl.

Ero felice e triste al tempo stesso, prima di salutarli mi fermai in una libreria, presi una cartolina in bianco e nero, dei gabbiani in volo sulla laguna.
Sul retro scrissi "Wish you were here", la chiusi in una busta e chiesi ai genitori di portala a Christopher. Spero davvero l'abbiano fatto.


Copia della cartolina con i gabbiani

A proposito del pezzo dei Pink Floyd, quella canzone è stata scritta da Roger Waters e David Gilmour, l'amico di Syd Barrett, al quale aveva rubato il posto nella band quando quest'ultimo era letteralmente uscito di senno (ed era stato cacciato dal gruppo).
Anche "Wish you were here", come tutto l'album, era dedicata all'amico "scomparso". Una delle leggende che girarono racconta che Syd si presentò in studio durante le registrazioni, con i capelli rasati a zero e grasso oltre misura, al punto che all'inizio non fu riconosciuto dai suoi (ex) compagni.


Poco importa in questo caso, perchè per me resta una delle più belle canzoni di sempre. 

Cosa non riesce a fare il senso di colpa.












mercoledì 16 aprile 2014

TV # 3 - Ruslan and Lyudmila

There stands a hut on hen’s legs, hairless,
Without windows and doors;
There visions fill a vale and forest;
There, at a dawn, come waves, the coldest,
On the deserted sandy shore,
And thirty knights,  in armors shone,
Come out the clear waves in a colon...


 Ruslan and Lyudmila  (Aleksandr Pushkin)

Credo sia ufficiale, dopo le tigri siberiane e i rinoceronti bianchi, anche i turisti sono in via d'estinzione. Li cerchi ma ne trovi a fatica, e quando per caso ne intercetti un paio, loro negano tutto definendosi "viaggiatori".
Passano un weekend a Parigi, si sono prenotati da soli sia il volo che l'albergo ("Pensa, dormivamo sopra il bar di Amelie"), tornano e ti raccontano che hanno visto, anzi vissuto Parigi come veri parigini.
E io penso che volare fino a lassù, per passare il weekend all'Auchan e all'Ikea (immagino sia dove i parigini spendano il loro fine settimana) non sia molto intelligente, visto che i centri commerciali ci sono anche qui.
I peggiori però sono quelli che ti raccontano del Deserto (con la "D" maiuscola), di quel silenzio surreale, il cielo di notte così vicino da poterlo toccare, il  tramonto e i suoi colori, l'alba e suoi colori, quell'infinita distesa di sabbia senza persone (certo, andate al Lido a Novembre, e vedete quanta gente c'è su quell'infinita distesa di sabbia chiamata "spiaggia").
E quando te lo raccontano sembra quasi di vederli, agghindati come Lawrence d'Arabia, i Bruce Chatwin de noantri, tutti viaggiatori.

Bene, il deserto l'ho visto anche io. Preparatevi.

Iniziai il mio Grand Tour nordamericano una sera di Ottobre. Il giorno prima un terremoto aveva fatto tremare tutta Los Angeles, ma per fortuna non si era trattato del tanto temuto "Big One".
La stazione Greyhound dalla quale partivo era in piena downtown, grande più o meno come un aereoporto di medie dimensioni.
Il posto era caotico, pieno di gente in maggior parte ispanici e asiatici, l'inglese non pareva essere la lingua più usata. Era buio e pioveva di una pioggia sottile, mi sembrava di essere in "Blade Runner", la scena nella quale Harrison Ford ordina i noodles ad un chioschetto.
Il tipo che mi accompagnava, Rafael, era uno dei camerieri messicani del ristorante nel quale lavoravo, forse quello più stronzo e rancoroso, eppure l'unico che si era offerto, anche perchè abitava da quelle parti.
Adesso capivo perchè era sempre incazzato.
Sistemato lo zaino nel bagagliaio presi posto nell'autobus, cercai un sedile isolato, fu facile visto che ci saranno stati una decina di passeggeri. in tutto Evidentemente Phoenix non era un posto così richiesto ad Ottobre.
Mentre ci facevamo largo tra le strade trafficate del centro, dal finestrino guardai le luci della città scorrere davanti a me, sembrava di essere in un video musicale dalle pretese artistiche, per la prima volta da molto tempo provai del disagio, forse una specie di paura. Che ci facevo seduto in quell'autobus?
Ormai era troppo tardi per tornare indietro, cercai nella guida la pagina su Phoenix, e dopo un paio di righe chiusi gli occhi, sapendo che all'indomani mi sarei svegliato in Arizona.
Fu all'alba che vidi il Deserto, sul suo silenzio non saprei che dire, dato che i finestrini del Greyhound erano a prova dei concerti degli Einstürzende Neubauten, ma lo spettacolo che si materializzò davanti ai miei occhi fu davvero incredibile.
Il benvenuto dell'Arizona fu la visione in technicolor del deserto, come solamente Zagor sotto peyote poteva sperare di vedere, la luce dell'alba colpiva  le rocce e i pochi arbusti creando immagini magnifiche.
Mai mi sarei aspettato un'esplosione di colori del genere, tanta bellezza mi sommerse, come le onde del pacifico in riva al mare, per un attimo entrai in quel paesaggio, e quel paesaggio entrò in me poi, forse perchè erano "troppo", quell'immagine e quei colori finirono in qualche scatola nella soffitta del mio cervello.

Come saprete già, la TV digitale offre un mondo parallelo alternativo, spesso i responsabili di rete sono costretti a sforzi immani per riempire palinsesti infiniti, così capita che vengano ripescate pellicole improbabili e dimenticate.

Durante una notte insonne mi imbatto in un film "fantastico" (scoprirò dopo essere "Ruslan and Lyudmila", tratto da un opera di Puskin, in italiano "Il castello incantato"), una specie di Promessi Sposi russo, però più epico.
La storia gira attorno alle prove che affronta il principe Ruslan per salvare l'amata Lyudmila, rapita da un mago durante un banchetto di nozze. Il tutto ambientato nella Russia del IX secolo.

Il film di per sè scorre anche bene, nonostante gli oltre 140 minuti di durata, le scene delle battaglie che incendiano le steppe sono meravigliose, ricordano quelle del "Lawrence d'Arabia" o di altri colossal degli anni '50.
Con mio grande stupore scoprirò qualche giorno dopo che il film non è stato girato in quegli anni, ma bensì attorno al 1970.
Per capirsi, quando Kubrick produceva "2001 Odissea nello spazio", i russi, grazie al loro maestro Aleksandr Ptushko (autore tra l'altro di meravigliosi lungometraggi animati), se ne uscivano con un film del genere, con effetti speciali così naif e psicadelici al tempo stesso, che nemmeno il miglior Anthony M. Dawson (aka Antonio Margheriti) sarebbe stato in grado di concepire. 


Ruslan e Lyudmila attraversano la foresta incantata

La parte che mi colpisce di più, a parte le scene delle battaglie, è quella ambientata in una specie di foresta incantata. Qui Ptushko consuma tutta la scatola dei colori, e riempie lo schermo di cristalli luccicanti, piante dalle cromie  improbabili e mostriciattoli che si muovo sospesi da fili (in)visibili.
Mentre vedo quella foresta ipercolorata mi ricordo del deserto in Arizona, e mi ritorna in mente quello che capitò subito dopo.

Mentre sono ancora abbagliato dallo spettacolo straordinario dell'alba, qualcuno dietro a me inizia ad urlare, faccio fatica a capire cosa voglia, ma sembra chiedere all'autista di fermarsi.

Mi giro e vedo un ragazzo che avrà avuto la mia età, ha la pelle olivastra e i capelli lunghi e così neri che sembrano avere dei riflessi azzurri, è già (o ancora) visibilmente ubriaco, cammina ondeggiando nel corridoio dell'autobus e continua ad urlare all'autista di accostare.

Si avvicina alla porta posteriore e cerca di aprirla, l'autobus finalmente si ferma, il ragazzo sembra calmarsi e l'autista gli chiede perchè vuole scendere, visto che siamo in mezzo al nulla, lui lo guarda sorpreso, dice che è un indiano e che la sua riserva è dietro la collina.

Quando la porta si apre il tipo si gira e mi saluta, poi salta giù, lo vedo arrampicarsi a fatica sulla collina, fino a quando scompare, inghiottito dalla nuvola di polvere sollevata dall'autobus.

Eppure mi sembrava che gli indiani nelle storie di Zagor non fossero così.




venerdì 11 aprile 2014

Cinema # 3 - Nik Novecento

Le riproduzioni di quadri famosi, delle statue e dei monumenti,  quasi sempre ingannano. In qualche modo fanno apparire quelle opere più grandi di quanto non siano in realtà.

L'esempio classico è "La Gioconda" di Leonardo, dopo aver aspettato un'ora (quando va bene) in coda al Louvre, e di conseguenza aver ignorato tutto il resto del museo, arrivi davanti a questo quadro e anche se lo puoi vedere solamente da lontano (distanza di sicurezza minima e la costante presenza di turisti come te non permetterebbero altro) ti accorgi che non è molto più grande di un 33 giri, poi ci sono le eccezioni. 

Per un motivo a me sconosciuto, negli ultimi 2 anni delle scuole superiori usai una cartolina del "Chicago Picasso" come segnalibro.
La scultura, il cui nome dovrebbe facilmente far capire sia l'autore che la città dove si trova, mi era sempre sembrata ragionevolmente piccola, forse 2 volte l'altezza di un uomo.

Il giorno in cui arrivai a Chicago nevicava, appena sceso dall'autobus della Greyhound mi resi conto che non ero molto attrezzato per quelle temperature, a mia discolpa c'era da dire che neanche 2 settimane prima me ne stavo in shorts a El Paso, e la neve non era certamente nei miei pensieri.
L'ostello di Chicago era uno di quelli vecchia maniera, oltre a pagare il costo del pernottamento, ti obbligavano a fare un "servizio", perciò il mattino dopo, appena fatta colazione, avrei dovuto spazzare per terra, praticamente la stessa cosa che  facevo nel ristorante a Los Angeles, almeno li non mi ghiacciavo il culo.
Comunque l'obiettivo della mia giornata era quello di andare alla Daley Plaza per vedere dal vivo la scultura di Picasso. Quando ci fui di fronte capii che si trattava dell'eccezione alla regola, la scultura che per 2 anni avevo visto in cartolina mi stava difronte, alta 15 metri, e tutto sommato faceva anche un po' paura.



In uno degli edifici che si affacciava sulla piazza si trovava la sede italiana della Rizzoli, o qualcosa del genere, in astinenza di notizie dall'Italia andai a vedere se riuscivo a recuperare un quotidiano della madre patria.
Il commesso al quale chiesi il giornale fu estremamente gentile, mi chiese di aspettare e dopo 5 minuti se ne tornò con una copia de "La Repubblica" del giorno prima, domenica, l'ultima edizione uscita dato che ai tempi quel  quotidiano non usciva il lunedì.

Presi il giornale e mi piazzai su di una panchina all'esterno, faceva freddo ma almeno aveva smesso di nevicare. Il cielo era ancora coperto e la neve sulla strada stava virando verso un colore grigio scuro. Sfogliavo le pagine a caso, leggendo qualsiasi notizia ma senza cercare niente di particolare.
Arrivai alla pagina degli spettacoli, c'era un'intervista a Maurizio Costanzo che parlava della necessità di mandare in onda le puntate del suo Show (all'epoca non c'era la diretta, le puntate venivano registrate con giorni se non settimane di anticipo), sia perchè "the show must go on" e sia come forma di rispetto per l'artista. Che se anche Nik Novecento era morto a 23 anni, sarebbe stato ingiusto cancellare le puntate.

Nik Novecento morto!? L'articolo non diceva nè quando e nè come, cercai spiegazioni nelle altre pagine, ma non trovai nulla.
Non ci potevo credere, quel ragazzino dalla faccia furba ma dai modi ingenui, quell'attore spontaneo, forse con poco talento ma con moltissima umanità, che Pupi Avati aveva scoperto e lanciato, non c'era più.

Volevo sapere come una cosa del genere era potuta accadere, così cercai il telefono pubblico più vicino, infilai un quarto di dollaro e composi il numero del centralino, all'operatrice dissi che volevo fare una chiamata in Italia, a carico del destinatario.
Rispose mia sorella, le chiesi di accettare la telefonata e la centralinista ci lasciò da soli.
Non mi sentivano da un paio di mesi, a casa sapevano che ero da qualche parte negli Stati uniti, in giro con un bus, all'epoca non era facilissimo comunicare e il detto "No news, good news" era una sorta di legge non scritta.
Mi chiese come stavo, io quasi non risposi e volli sapere cosa era successo a Nik Novecento.
Mi spiegò che la sua morte era dovuta ad una malformazionde cardiaca, poi mi passò mio padre, e poi qualcun altro, onestamente sentivo una voce che mi parlava, io rispondevo, ma la mia mente era altrove. Non potevo smettere di pensare alla faccia furbetta di Nik Novecento.
Ci salutammo con la promessa che si saremmo sentiti al più presto.
Appena agganciato tirai fuori un altro quarto di dollaro e richiamai il centralino, mi ripose una ragazza diversa dalla prima che mi chiese con chi volessi parlare, io esitai un paio di secondi, dissi "Nik Ninehundred is dead" e me ne andai.


La neve aveva appena ripreso a cadere, ero solo, faceva davvero freddo e non riuscivo nemmeno a piangere.

domenica 6 aprile 2014

Sport # 3 - Angelo "Nini" Vadalà

"Deus ex machina è una frase latina mutuata dal greco "ἀπὸ μηχανὴς θεός" ("apò mēchanḗs theós") che significa letteralmente "divinità (che scende) dalla macchina".[1]
Tale espressione indica, per estensione, chi o ciò che risolve inaspettatamente una vicenda o problema intricato, spesso con modalità apparentemente non correlate rispetto alla logica interna della vicenda, al punto di apparire frutto di genialità o fortuna." (Wikipedia) 


Ho visto "Pulp Fiction" al cinema Centrale, a Venezia. Tanto per cambiare quel cinema non c'è più, vittima della mattanza delle sale cinematografiche che ha colpito la città in modo feroce a metà degli anni '90.

Il Centrale è diventato un Lounge ristorante (qualsiasi cosa voglia dire) che per un periodo è riuscito a proporre un'imbarazzante "Pasta e Fagioli" a 22 EUR a porzione, purtroppo ora scomparsa dal menù.
Il ristorante però continua a regalarci capolavori di fuffa pura per acrobati del palato, come l'enigmatica "Spuma di patate con castraure e "botoi" di Sant'Erasmo", nella versione assaggio a 7,40 EUR o in quelle piccola a 11,80 EUR (nessun cenno a quella grande o perlomeno a quella normale), o  lo psicadelico "Magnum di gelato di salmone affumicato in casa con legno di cirmolo ricoperto di nocciole e sfoglie croccanti", purtroppo solamente in versione piccola, al prezzo equo di 16,50 EUR (tra l'altro, affumicato a casa di chi?!).

"Pulp Fiction", si diceva, un il film diventato giustamente "cult", un capolavoro, pieno di battute memorabili e personaggi perfetti.
Tra i quali, senza ombra di dubbio, quello che tutti ricordano è Mr Wolf, l'uomo che risolve i problemi. Di "risolutori" il cinema ne ha sempre avuti, per me quello più famoso prima di Mr Wolf è il personaggio interpretato da Jean Reno in "Nikita" di Luc Besson. Lui è il "risolutore" schiaccia sassi, grande, grosso e sicuro di sé, che viene mandato per salvare Nikita da una situazione altrimenti irrisolvibile.

Ma Harvey Keitel, che risponde al telefono alle 7 di mattina inspiegabilmente in smoking, è tutta un'altra cosa, arriva fresco e rilassato con un sorriso da venditore di aspirapolveri, si beve un caffè (che in quel film sembra essere il più buon caffè del mondo), e in un paio di minuti elabora un piano degno del miglior McGyver.
E come cigliegina sulla torta, rimorchia pura la bionda dello sfascia carrozze.
Che dire, se una persona è così cool, c'è poco da fare.

Mr Wolf è il sogno di tutti quanti, il Deus ex machina da chiamare quando la situazione diventa improvvisamente difficile, irrisolvibile.

Penso a lui quando un mio caro amico mi racconta la storia di suo padre. Tutto nasce da un episodio legato ad Andrea Pirlo e Carlo Ancellotti, all'epoca rispettivamente giocatore ed allenatore del Milan.

Febbraio 2003, Pirlo stranamente è in panchina, il Milan a San Siro sta soffrendo con un modesto Modena, l'arbitro fischia un rigore per la squadra di casa. Ancellotti guarda Pirlo e gli dice di entrare, in fin dei conti nel corso di quel campionato ne aveva segnati 6 su 6, mentre i tre suoi compagni che quell'anno l'avevano sostituito dal dischetto  (Rivaldo, Inzaghi e Serginho) avevano fatto cilecca.

Pirlo si toglie la tuta, entra in campo, mette la palla sul dischetto e tira, goal.

Così il mio amico iniza con il suo racconto.
Angelo "Nini" Vadalà 

Aprile 72, il padre all'epoca giocava in porta nel Chioggia, la squadra milita in serie D, un campionato semi professionistico di ottimo livello. Angelo, che tutti chiamano Nini, non è un gigante (all'epoca pochi portieri lo erano) ma ha un'agilità fuori dal comune, che gli permette parate spettacolari a volte quasi impossibili. Per tutto l'anno ha conteso la maglia di titolare con l'altro portiere, ma nonostante le buone prestazioni l'allenatore sembra non volergli assegnare la maglia numero 1 in modo definitivo.

Quando gioca però non sbaglia quasi niente e para quasi tutto, soprattutto i rigori, che sono la sua specialità, dall'inizio del campionato ne ha già parati 6.

Quella domenica si accomoda (si fa per dire) in panchina, il Chioggia sta vincendo 2-1 contro il Bassano, la partita è quasi finita quando l'arbitro fischia il rigore contro la squadra di casa.

Non ci sono filmati, e le cronache del tempo sono molto scarse.

L'allenatore del Chioggia esita un attimo, poi si gira verso Nini e gli dice di entrare, immagino che il portiere titolare non l'abbia presa bene, anche gli avversari devono essere stati disorientati da questo cambio, ma probabilmente qualcuno fa notare ai giocatori del Bassano che quel ragazzo magro appena entrato di rigori ne ha già parati 6.

Qui, forse inconsciamente, l'allenatore compie il suo capolavoro, il cambio mette ancora più pressione sull'attaccante del Bassano, che quando va a calciare la palla non è più sicuro come prima.
Piccola rincorsa e tiro, Nini, dopo oltre un'ora di panchina, ha ancora i muscoli freddi ma la testa no, quella è pronta, le sue gambe si tendono e vola.
Lo stadio esplode, lui si rialza con la palla tra le mani, questo sarà il suo settimo rigore parato.
La partita riparte, pochi minuti ancora e l'arbitro fischia la fine, il Chioggia batte il Bassano 2 a 1.

Nini giocherà ancora molti anni a Chioggia, una volta smesso insegnerà ai bambini come volare da un palo all'altro, rimanendo sempre con i piedi per terra.

Qualche anno fa Angelo se n'è andato, di solito si dice prematuramente, e nel suo caso l'espressione è sicuramente riduttiva.
Ha lasciato molti bei ricordi, Nini, e due figli straordinari che tengono viva la sua memoria, anche se a Chioggia certe sue parate, rigori inclusi, nessuno potrà mai dimenticarle.

Adesso che non c'è più, anche io che l'ho incrociato appena un paio di volte, vorrei tanto avere un "Nini" al mio fianco, un Deus ex machina da chiamare per risolvere problemi che spesso fanno disperare, per parare i rigori che la vita continua a fischiarmi contro.

mercoledì 2 aprile 2014

Sport # 2 - Drazen Praja Dalipagic

Una volta ho visto dio, era Jugoslavo, aveva i baffi, una canottiera granata, e giocava a basket. Certo, un dio minore, perchè l'unico vero dio che abbia mai calpestato un campo da basket era nero, pelato e portava il numero 23 sulla schiena.

Drazen Praja Dalipagic, quel signore con le spalle curve e il baffo triste che sembrava camminare per il campo senza nemmeno sudare, era diventato il mio "personal god". 
La partita in cui ebbi la rivelazione fu quella che la Reyer giocò contro la squadra di Udine, nelle cui fila militava un play americano a fine carriera, ma ancora fenomenale, che rispondeva al nome di Larry Wright.
Quell'incontro me lo ricordo come una sfida tra Larry Wright da una parte e Drazen Dalipagic dall'altra, 44 punti per il play americano e 56 per il "Drago di Mostar", 12 punti di differenza, gli stessi che separarono anche le due squadre alla fine della partita.
Forse i numeri reali furono diversi, ma non importa, io me lo ricordo così, il resto non conta.
Dalipagic trascinava con la solita apparente flemma i suoi quasi 2 metri d'altezza in giro per il campo, quando la palla finiva tra le sue mani, lui dava un'occhiata al canestro, tirava e segnava.


Stavo seduto sui gradoni di cemento del palazzetto assieme a Carlo, il mio compagno di classe/amico del cuore/cestista, che mi spiegava un po' meglio le azioni in campo, ma nemmeno lui riusciva a capire quello che stava facendo Drazen.
Purtroppo per Udine, anche il loro allenatore non lo capiva, lo stavo guardando da mezza partita ormai, con il passare dei minuti il linguaggio del suo corpo faceva trapelare un misto tra disperazione e rassegnazione. Aveva caricato la squadra di falli nel vano tentativo di bloccare quella mattanza, tutti i giocatori si erano alternati cercando di fermare Dalipagic, ma quando ad un certo punto Praja, con un difensore aggrappato al collo come fosse un cucciolo di koala, tirò da lontanissimo facendo canestro (e poi segnando anche il tiro libero conseguente al fallo) l'allenatore allargò le braccia in segno di resa, impotente davanti a quell'ennesimo prodigio, e fu in quel momento che io ebbi La Chiamata.
Ero Jake Blues/John Belushida qualche parte il reverendo James Brown mi urlò: "Hai visto la luce!?". Io, estasiato mi alzai in piedi e urlai "Si!", in quel preciso istante il tetto del palazzetto dell'Arsenale si aprì e un fascio di luce colpì il mio viso, mentre angeli con i baffi iniziarono a cantare le lodi del tiro da tre punti.
Forse non andò proprio in questo modo, ora che ci ripenso ho dei dubbi, ma sono passati tanti anni.

La Reyer in quegli anni era davvero la squadra di Venezia, e molti dei suoi giocatori abitavano in città, la casa di Dalipagic ad esempio era vicina alla mia.
Molto spesso mi capitava di vederlo in giro, chiuso in un enorme cappotto beige e in una sciarpa rossa stile Fellini.
Camminava con calma, con la stessa velocità e con la stessa aria pacifica che aveva in campo, rispondeva a chi lo salutava, ma per lo più se ne stava per i fatti propri.

Giravano un sacco di leggende sul suo conto, una delle più divertenti raccontava di quando, a passeggio con la moglie nei giardini di Sant'Elena, passò vicino al campo da basket all'aperto dove stavano giocando dei marinai americani appena sbarcati in città. Durante un'azione la palla finisce fuori del campo, fermandosi a pochi centimetri dal piede di Drazen, lui, con il solito cappotto beige d'ordinanza, la raccoglie e con calma, al posto di passarla all'americano più vicino, tira verso il canestro centrandolo. Gli americani increduli gli restituiscono la palla, lui fa altri 2 passi verso il campo e tira, e segna di nuovo, per farla breve ogni volta che gli passano la palla, lui segna, fino a quando la moglie spazientita lo richiama e il mio dio jugoslavo se ne va, lasciando gli americani ammutoliti.

Visto la sua incredibile abilità nei tiri liberi (nella leggendaria partita nella quale segnò 70 punti, ne infiliò 19 su 19) c'era una storia che girava fatta apposta per spiegare la sua precisione, si raccontava che a fine allenamento, mentre i suoi compagni erano sotto la doccia, lui si mettesse alla lunetta e con gli occhi bendati (alcuni dicevano che usasse la sua inseparabile sciarpa rossa) tirasse un centinaio di tiri liberi di seguito, assistito nel recupero della palla da un ragazzino.
Io per queste storie impazzivo, e finivo per crederci.
A differenza delle altre divinità, gli dei del basket invecchiano, e l'anno successivo, a quasi 37 anni Dalipagic, il drago di Mostar, lasciò Venezia per giocare l'ultima stagione in Italia a Verona.

Passarono molti anni prima che sentissi parlare ancora di Mostar,  improvvisamente non era più nemmeno in Jugoslavia, ma in Bosnia-Herzegovina, la guerra stava dilaniando quella terra e credo che ben pochi pensassero al basket.
Il TG mostrò l'ennesimo crimine di guerra, il meraviglioso antico ponte di pietra sul fiume Neretva (in italiano Narenta), che collegava la parte cristiana della città a quella musulmana, era stato distrutto dall'esercito croato-bosniaco.
Come spesso capita nelle guerre, ci sono simboli che vanno colpiti, e quel ponte era fonte d'imbarazzo, un ostacolo da eliminare per chi voleva dividere quella terra.
Il TG recuperò vecchie immagini, e la curva del ponte mi sembrò familiare, l'arco che si rifletteva sul fiume sottostante ricordava incredibilmente le parabole dei tiri di Dalipagic, come se inconsciamente il drago di Mostar cercasse di ricreare quella curvatura unica ad ogni suo canestro.  
Mi immaginai allora che, finita la guerra, gli ingegneri e gli architetti incaricati della ricostruzione avrebbero chiamato Praja per fargli disegnare La Curva perfetta dalla quale ricostruire il ponte.
Ovviamente non andò così, il ponte fu ricostruito quasi 10 anni dopo, sotto il patrocinio dell'UNESCO e grazie ad uno sforzo internazionale. 
Ora il ponte è al suo posto, identico alla sua versione precedente, come se nulla fosse, un simbolo resta un simbolo, soprattutto quando deve coprire ferite fresche. Almeno l'apparenza è salva.



Dalipagic a Mostar non abita più da anni, viene spesso a Venezia per raccogliere gli applausi di chi non l'ha mai dimenticato ma anche di chi all'epoca non c'era, mentre le leggende su di lui se le ricordano in pochi.

Qualche anno fa capitai per sbaglio a casa di un mio amico per pranzo, con lui c'erano delle persone che non conoscevo, tra questi un ragazzo magro e alto. Salta fuori che suo padre era l'allenatore della Reyer negli anni di Dalipagic.
Allora io inizio a raccontargli tutti gli aneddoti di cui mi ricordavo, comprese le due leggende metropolitane.

Appena finisco un sorriso gli si disegna in volto, mi dice che in merito alla sfida con gli americani non può dire nulla, ma sui tiri liberi post allenamento lui ci crede, perchè il ragazzino che gli passava la palla era lui.

A volte i miracoli accadono, almeno avesse detto "mio cugino", allora sì avrei avuto qualche dubbio, ma quel ragazzino era davvero lui. Non gli chiesi però della sciarpa rossa, pensai fosse meglio non esagerare.

Dopo anni una delle leggende della mia gioventù si è rivelata non essere tale, adesso non mi resta che cercare dei marinai americani.