mercoledì 26 febbraio 2014

Musica # 6 - Johnny and Mary

L'Illuminismo è stata una buona cosa, salvarci dal buio dell'ignoranza, delle superstizioni della religione ci ha in qualche modo reso più liberi.



Personalmente, per quanto fascinose siano molte teorie complottistiche o le fantasiose spiegazioni non scientifiche, sono un aperto oppositore dell’ignoranza. Tra la scelta di sapere e quella di non sapere scelgo sempre la prima, “se sai, sei”, se non sai, cerchi di partecipare al "Grande Fratello".
Eppure l’ignoranza ha una sua magia, per spiegare le cose che non capisci, a volte si inventa, si crea  un mondo fantasioso in grado di chiarire ogni tuo dubbio, senza perdere troppa energia per cercare prove o spiegazioni razionali.
Per secoli gli uomini hanno risolto in modo poco plausibile ma estremamente affascinante quesiti che la scienza del proprio tempo non sapeva spiegare.

Le centinaia di stelle cadenti che vediamo da secoli nei nostri cieli ad agosto, erano per tutto il mondo cristiano le lacrime di San Lorenzo, prima che qualcuno spiegasse che si trattava di detriti lasciati dalla coda di una cometa che ogni anno incrocia l'orbita terrestre. Ma sapere la verità in questo caso ci ha reso più felici? Ora che sappiamo la fredda scientifica risposta stiamo meglio? Non credo.

Quando il Mostro di Lochness si rilevò essere nient'altro che uno scherzo fatto bene, la vertià non tolse forse la magia? Di certo non ha fermato le migliaia di turisti che ogni anni vanno in Scozia per scrutare la superficie di un piccolo lago altrimenti anonimo, però in cuor nostro sapere che si tratta di un falso ci rende un po' più tristi.

Poi ci sono le eccezioni, quando cioè la verità non toglie nulla alla magia dell'illusione, come ad esempio il primo gol di Maradona nella partita contro l’Inghilterra ai Mondiali del 1986, quando il replay svelò il trucco facendoci vedere che era stata la mano del Pibe de oro a spingere la palla in rete, e non un suo colpo di testa.
La cruda realtà  non riuscì a togliere nemmeno una briciola di poesia a quel capolavoro anzi, forse fu la Mano de Dios a rendere quel gol ancora più memorabile.

Da bambini l’ignoranza della lingua inglese ci costringeva ad inventare, soprattutto quando a squarciagola cantavamo le hit sentite alla radio. Nelle fitta nebbia della nostra ignoranza linguistica a volte alcune frasi suonavano incredibilmente chiare,  pronunciate in una lingua a noi comprensibile.

Avrò avuto 12 anni, alla radio impazzava “Johnny and Mary”, di Robert Palmer, un tipo super cool, con il ciuffo e l'abito perfetto, una specie di Brian Ferry con poco meno talento, e sicuramente con meno carisma (e fortuna).

Quel pezzo però spaccava, con il basso che ne dettava il ritmo, strizzando l'occhio a Moroder e che probabilmente ispirò "Young Turks" di Rod Steward l'anno dopo.
La prima strofa della canzone finiva con la frase “Mary counts the walls/Knows he tires easily" , lascio a voi il vero significato, ma diciamo che non dipingeva una storia d'amore felice.
Comunque per noi ragazzini a digiuno d'Inglese, inequivocabilmente la seconda parte diceva “rosegar e sisoe” ("rosicchiare le giuggiole”) e più ascoltavi la canzone e più te ne convincevi.
Per il compleanno di un mio amico decidemmo di regalargli il 45 giri (si, era molto tempo fa), non mi ricordo chi ebbe l'idea, ma assieme al disco, arrivò anche un sacchetto con un un paio di etti di “sisoe”.

Se il vinile fece felice il mio amico, il regalo di "contorno" regalò il sorriso a tutti i presenti, l’effetto fu quello desiderato, come da copione passammo metà festina a ascoltare quel 45 giri, e a rosegar e sisoe.




Dopo tutti questi anni, anche adesso che so la “verità”, è superfluo dire che preferisco l’alternativa immaginata da un gruppetto di ragazzini alla tristezza del testo originale.






He needs all the world to confirm
That he ain't lonely
Mary counts the walls
Knows he tires easily

sabato 22 febbraio 2014

Musica # 5 - Alison


And with the way you look I understand
that you are not impressed.
But I heard you let that little friend of mine
take off your party dress.

Alison - Elvis Costello



Mancavano pochi giorni a Natale, e il mio tempo in California stava finendo. Erano trascorsi quattro mesi,  e già provavo nostalgia per un periodo che a breve sarebbe diventato passato.

Nelle prime settimane del mio soggiorno americano sognavo sempre di mia madre, l’unica persona che al mio ritorno sapevo non avrei rivisto, ma adesso che a casa ci stavo per tornare davvero il sogno ricorrente era cambiato: ogni notte vivevo una specie d’incubo, quei quattro mesi e mezzo erano passati invano, non avevo imparato niente, una volta in Italia non sapevo una parola d’inglese,  in più ero il solito perdente (questa parte risultò poi essere vera).
Non avevo nemmeno trovato una ragazza, una di quelle belle californiane bionde, dal sorriso bianco e dalle forme generose, come si vedevano in TV, ma questo onestamente era l'ultima delle mie preoccupazioni.

Devo ammettere poi che passare gran parte del tempo nella cucina di ristorante popolata da messicani, a pulire calamari e a pelare spicchi d'aglio, non facilitava particolarmente la mia vita sociale, che di fatto si limitava a pomeriggi tra i baffi dei messicani e quelli della coppia gay del negozio di fiori a fianco.

Mancavano pochi giorni a Natale e al mio rientro a Venezia, non volevo tornarci a mani vuote, mi presi allora un pomeriggio libero per andare con la mia bicicletta in una specie di centro commerciale.
Dopo un ora passata in mezzo a quel tempio del consumismo americano, avevo completato i miei acquisti, con pazienza anglosassone mi misi in coda per pagare.
Quando fu il mio turno la cassiera mi fece un sorriso meraviglioso, almeno quanto i  suoi incredibili occhi blu, aveva dei capelli rosso scuro, e sulla camicia la targhetta con il suo nome: “Alison”.

Quando mi diede il resto, ci fu una specie di “tango esitation”, e sembrò che il suo sorriso fosse davvero per me, pedalai in fretta per ritornare al lavoro, con quell'immagine straordinaria nella mia testa.

Arrivato in ristorante mi sistemai nella mia postazione e iniziai a prendere le ordinazioni dal secondo cuoco, Salvador (a.k.a "L'Unto dal Signore") ma la mia mente era rimasta li, davanti alla cassiera, persa nel blu profondo dei suoi occhi.
In un momento di pausa decisi che dovevo chiamarla, prima però mi serviva la frase d’effetto iniziale, allora mi ricordai della canzone di Elvis Costello “Alison”, la melodia era dolce e le parole, per quanto mi ricordassi al tempo, romantiche abbastanza, con il ritornello che diceva “Alison, my aim is true”.

Così mi feci coraggio, recuperai il numero di telefono dallo scontrino e chiamai il negozio, alla persona che rispose dissi che volevo parlare con Alison, incredibilmente dopo qualche secondo sentii la sua voce, balbettai un mezzo saluto cercando di spiegarle chi fossi, lei sembrò capire e mi salutò con voce allegra, le dissi che adoravo la canzone di Elvis Costello e che lei era la prima ragazza che conoscevo con quel nome.


Copertina del singolo "Alison"


Lei se ne uscì con un “Who’s Elvis Costello?”  che mi gelò il sangue, il mio piano in apparenza inattaccabile era miseramente naufragato per colpa dell’ignoranza musicale di quella ragazza. Non avevo un piano “B”, e dopo pochi secondi di silenzio, attaccai il telefono.

Molto tempo dopo lessi il testo di “Alison”, non era affatto così romantico come pensavo, anzi, parlava di un incontro imbarazzante tra questo tizio e la sua ex, che già era stata con un suo amico e che adesso era felicemente sposata, praticamente l'inno di tutte le storie d'amore tristi e sfortunate.

Avessi avuto anche una sola possibilità con quella ragazza, avevo finito per scegliere la canzone sbagliata.






giovedì 20 febbraio 2014

TV # 1 - Guy Goma

L'8 maggio 2006 Guy Goma, un signore congolese, si presenta alla reception principale della sede BBC di Londra per un colloquio di lavoro* come addetto alle pulizie. La receptionist gli dice di accommodarsi e di aspettare. (*In lingua Inglese "interview" può significare sia "colloquio di lavoro" che  "intervista".)

Nello stesso momento, in un'altra sala d'attesa, Guy Kewney, un esperto inglese di tecnologia, si sta preparando all'intervista che a breve Karen Bowerman gli farà in diretta durante il BBC News 24, in merito alla causa in corso tra Apple Computer e l'etichetta dei Beatles, Apple Corps.

La segretaria di produzione viene mandata a prelevare l'illustre ospite, ma sbaglia sala d'attesa, chiede alla receptionist di Guy Kewney, e le viene indicato il signore congolese. La segretaria ha dei dubbi,  gli domanda se davvero si chiama Guy e se è qui per una "interview". Guy Goma annuisce, e viene portato in un camerino per essere truccato.

Successivamente Guy Goma dirà di aver pensato che una preparazione del genere gli fosse sembrata eccessiva, ma che non conoscendo le abitudini della BBC non avesse osato protestare.

Dopo pochi minuti viene portato davante all'intervistatrice, che in diretta nazionale lo presenta come l'esperto di tecnologia Guy Kewney e inizia a porgli una serie di domande.

La faccia di Goma è straordinaria, abbozza mezza scusa, ma l'intervista è un capolavoro di improvvisazione, e dopo 2 minuti scarsi il tutto si chiude senza intoppi, solamente a telecamere spente  l'equivoco viene a galla.





Quando avevo 15 anni, passai dalla mia squadra di calcio a quella subito più grande, non per meriti sportivi, ma perchè la loro rosa era incredibilmenrte ridotta ed io ero l'unico dei più piccoli che poteva ufficialmente fare il salto di categoria.

Con un  massimo di 12 giocatori a disposizione finii per giocare quasi sempre, spesso per  tappare buchi e di fatto ricoprendo tutti i ruoli.
Quella domenica di marzo dovevamo visitare il Musile di Piave, era una delle ultime trasferte del campionato. La partita sulla carta si presentava semplice, visto che all'andata li avevamo battuti 7-1, in quella partita avevo giocato gli ultimi 10 minuti, quel tanto per segnare il settimo gol, probabilmente l'unico gol di rapina al ralenty nella storia del calcio.
Il loro allenatore non la prese molto bene, al punto che urlò ai suoi difensori: "Gavì fato segnare anca sto pandoo!" (ndr, avete fatto segnare anche questo spilungone imbranato).
Io, che quel gol giustamente nemmeno l'avevo festeggiato, a quel punto iniziai una corsa verso la curva (inesistente) togliendomi la maglietta e urlando come Tardelli in Italia Gemania del 1982 poi, passando davanti alla panchina ospite, mi infilai la maglietta mostrando "casualmente" un dito della mano.

Comunque quella domenica eravamo in autobus, pronti a partire, ci contiamo e siamo in 10, manca il portiere. L'allenatore scende per telefonare, dopo un paio di minuti risale e dice all'autista di partire, ci informa che il portiere stava ancora dormendo e che non c'era più il tempo per aspettarlo.
Poi mi guarda e mi dice che oggi giocherò in porta.

Arriviamo, recupero dei pantaloni di tuta e una maglia grigio malinconia con il numero 12 (quella da titolare se la teneva sempre il portiere vero), ma niente guanti. Prima di entrare in campo mi vedo allo specchio, e non mi invidio. Sembro uno di quei portieri di riserva dell'album Panini 76-77, quello con i giocatori immortalati in azione, all'epoca giocavano sempre e solamente i portieri titolari, perciò gran parte dei numeri 12 sono fotografati con la tuta di allenamento che fingono parate improbabili.




Faccio il mio ingresso al "Musile Arena", una distesa di fango compatto, e mi sento un Alessandrelli qualsiasi con addosso il pigiama della Lebole.

Iniziamo, i miei compagni fanno un lavoro grandioso per tenere gli avversari a distanza di sicurezza e il primo tempo finisce senza grossi problemi, salvo una punizione respinta sulla linea dal mio capitano.

Al rientro dopo l'intervallo passo davanti alla panchina della squadra di casa, e succede il dramma, il loro allenatore mi riconosce, probabilmente grazie alla sceneggiata della partita di andata.

La notizia che in porta non c'è il portiere titolare, anzi non c'è proprio un portiere, si diffonde anche sugli spalti e per tutto il secondo tempo, incitati dal pubblico, gli avversari iniziano a tirare da qualsiasi posizione, il tutto ovviamente ci rende la vita più semplice.
Ma giocare in 10 una partita intera sul fango non è facile, e a pochi minuti dalla fine il mio capitano scivola a metà campo, il loro centravanti gli ruba la palla, triangola con l'ala sinistra, e punta alla mia porta con 2 compagni ai lati, io sono immobile, poi corro loro incontro urlando un improbabile "banzai".
Sono sempre più vicini e poco prima del limite dell'area, a meno di 5 metri dalla palla, fingo di tuffarmi sulla destra, poi mi stendo sulla sinistra, con l'agilità di un leopardo, marino.
Mi spiaggio sul fango sperando per il meglio, il centravanti inspiegabilmente decide di tirare, la palla mi supera, se gli ha dato l'effetto a rientrare sono fregato, e invece il tiro è un missile terra-aria che va dritto come un fuso, un paio di metri fuori della porta.

Mi alzo che sembro La Creatura della Palude, e con la velocità che si addice ad un mostro da B-Movie raccatto la palla e mi preparo per il calcio di rinvio mentre il pubblico mi copre di insulti.

Ormai è quasi finita, c'é un tipo dietro alla mia porta che da mezzora mi maledice in dialetto, io gentilmente gli chiedo se può parlarmi in italiano, perchè non lo capisco (cazzate, ma non riesco a non prenderlo per il culo).
L'arbitro fischia, mi giro, in qualche modo i miei compagni hanno segnato, siamo passati in vantaggio. Tempo di rimettere la palla in gioco e questa volta l'arbitro fischia la fine.

Sono l'ultimo a rientrare in spogliatoio, il loro allenatore mi aspetta, ha lo sguardo incredulo  e sconvolto, come avesse appena visto il proprio cane fumare una Malboro, mi stringe la mano, non si accorge nemmeno che sono ricoperto di fango.

Dopo quella partita tutto tornò alla normalità, il portiere titolare non saltò una sveglia, e io continuai a giocare dove il mister mi chiese di volta in volta, ma mai più in porta.
Ma per quanto ne so io, ho ancora il record percentuale di imbattibilità per partire giocate, il 100%.

Come ha dimostrato anche Guy Goma molti anni dopo, nella vita è importante sempre farsi trovare pronto, che sia un'intervista alla BBC, o una partita da giocare in porta a Musile.

A proposito, Guy Goma riuscì a fare la vera "interview" (colloquio di lavoro) poco dopo l'intervista in diretta, ma non fu assunto.


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martedì 18 febbraio 2014

Musica # 4 - Song to the siren




Long afloat on shipless oceans 
I did all my best to smile 
'Til your singing eyes and fingers 
Drew me loving to your isle 
And you sang 
Sail to me 
Sail to me 
Let me enfold you 
Here I am 
Here I am 
Waiting to hold you

Song to the siren - Tim Buckley




Per chi è cresciuto con i video musicali negli anni '80, ascoltare una canzone senza accostarci delle immagini è difficile, o almeno lo è per me.
Associare un brano ad un'immagine o ad un posto è un gioco che faccio spesso: il giorno che andrò a New York, mi voglio sedere in una panchina nel Central Park per ascoltare "Perfect day" di Lou Reed, oppure quando visiterò Berlino voglio piazzarmi davanti agli ultimi pezzi del Muro ancora in piedi per spararmi nelle cuffie "Heroes" di David Bowie. Mentre in Piazza Duomo a Milano, circondato da piccioni, voglio ascoltare "Voglio avere il becco" di Povia (oppure no).





Quando la scorsa estate stavo organizzando il viaggio in Irlanda con mia figlia dodicenne, decisi di  includere una visita alle scogliere di Moher, e contemporaneamente pensai alla canzone ideale per quel panorama, la scelta fu facile: "Song to the siren" di Tim Buckley.
Anche se di origini irlandesi (per metà) non credo che Buckley Senior le scogliere le abbia mai visitate, ma quel testo monumentale (scritto non da lui, ma da Larry Beckett), visionario e criptico, si sposava perfettamente alle immagini che avevo visto in giro, la musica poi, quella si di Buckley, così potente e straziante, creava un matrimonio perfetto.

Prima di partire mi assicurai che nell'iPod ci fosse la mia versione preferita, quella cantata da Robert Plant, nessuna lesa maestà, sapevo che comunque il buon Tim Buckley avrebbe capito.

Arriviamo a Galway in un tipico giorno settembrino d'Irlanda, con pioggia microscopica e cielo grigio, il giorno dopo fortunatamente, il cielo è azzurro, le nuvole spazzate via dal vento.
Partiamo per le scogliere, durante il viaggio racconto a mia figlia le meraviglie di questo posto, quando arriviamo il nostro è l'ottavo autobus nel parcheggio, ma ci sarebbe spazio sufficiente per almeno un'altra cinquantina.
Scendiamo e imbocchiamo la strada principale che ci porta davanti al museo delle Moher Cliffs, che per non rovinare lo skyline, è stato costruito scavando dentro una collina, bravi questi Irlandesi. Ma le belle notizie finiscono qui. 
Il museo è un bluff, fai un giro dentro (letteralmente un giro, perchè è rotondo), dei pannelli ti  spiegano la natura sottostante (!?) e la storia delle scogliere (!!??) , e ti ritrovi davanti alla caffeteria a comprare dei panini preconfezionati.
Usciti dal museo la strada continua verso una specie di piazzola dove sorge La Torre, sulla guida dicono che è di metà '800, capirai che impressione.
Mentre ci passiamo vicino noto un coglione vestito da Gandalf che suona un'arpa celtica, l'istinto è quello di puntare verso lo strapiombo, ogni 50 metri ci sono dei cartelli con il numero del "telefono amico" irlandese e delle frasi che dovrebbero darti conforto, messi li con l'intenzione di far desistere aspiranti suicidi. In effetti, se allunghi il collo oltre il muretto che argina la piazzola il pensiero ti sfiora la mente, soprattutto se con le note dell'arpa in sottofondo.
Per adesso, escluso il coglione simil Gandalf, le scogliere sono una mezza delusione.
Dalla piazzola il sentiero punta a Nord (destra) o a Sud (sinistra), nel dubbio scelgo, come al solito, di andare a sinistra.
Camminiamo per un quarto d'ora e poi mi giro verso il punto dal quale siamo venuti, e abbasso la guardia quel tanto per farmi fregare. La vista è spettacolare, le scogliere cadono dritte sul mare per quasi 200 metri, l'oceano che ne lambisce la base  è così lontano che sembra un paesaggio in miniatura.
La giornata è splendida, il vento soffia leggero ma costante, a sgombrare il cielo dalle nuvole, l'orizzonte è lontanissimo, inarrivabile.
Scorgo mia figlia che fissa un punto indefinito oltre l'oceano, la immagino fra 30 anni, quando non ci sarò più, che persona sarà diventata, se avrà realizzato i suoi sogni, come sarà la sua vita.
Magari avrà dei figli, e  forse racconterà loro di quel giorno in Irlanda quando, con suo padre, riuscì a vedere l'infinito.
Si gira, e mi fa il sorriso più dolce che abbia mai visto, mi chiede se va tutto bene, e io gli rispondo di si, perchè non saprei come dirle che in quel preciso istante sono l'uomo più felice dell'universo.
Indosso le cuffie, schiaccio play e lascio che Robert Plant faccia il suo lavoro, che mi racconti di oceani senza barche, di voci misteriose e ingannatrici.






sabato 15 febbraio 2014

Musica # 3 - Babylon By Bus


Don't forget your history;
Know your destiny:
In the abundance of water,
The fool is thirsty.
Rat race, rat race, rat race!

Rat race - Bob Marley




Essere stato un adolescente a Venezia negli anni '80 lascia dei segni indelebili sul carattere di una persona, e anche sul fisico, perché innanzitutto a Venezia cammini, sempre. 






Misurare le distanze in termini di "minuti a piedi" è un lusso straordinario, cammini così tanto che alla fine impari a riconoscere le crepe sui marmi agli angoli dei palazzi, guardi le persone negli occhi, altro lusso, fino a quando diventano familiari abbastanza per iniziare a salutarle.

Negli anni '80 Venezia era la città migliore per ascoltare la musica con il WalkMan, e lo è ancora adesso, con l'iPod. Non ci sono rumori di fondo, e se riesci ad evitare i branchi di turisti, sempre più numerosi a dire il vero, il livello di stress è quasi pari allo zero, non ci sono marmitte di motorini che scoreggiano come dinosauri, non ci sono semafori rossi (e nemmeno verdi).

La gente si incontra e parla, non urla, perché non deve, è forse l'unico posto al mondo dove ancora si può sentire il rumore dei passi.
Il Veneziano standard si riconosce da quella che una volta si diceva "camoma", una sorta di stato mentale, di attitudine coolness di chi sa che non c'è fretta, che a piedi si può arrivare ovunque.

La complessità topografica della città aiuta il Veneziano a capire facilmentele mappe di metropoli ben più grandi, ti insegna a non perdersi mai, un specie di dono innato, che non ha nulla da invidiare a quello delle guide indiane di Tex Willer.

La matassa ingarbugliata di calli e callette nella mente di un Veneziano magicamente si dirada, si semplifica, al punto che se un turista chiede un'indicazione ad un autoctono, nove volte su dieci si sentirà rispondere "Fai questa calle, gira a destra e poi sempre dritto".

Ma se un Veneziano passa Il Ponte (per i "foresti", Il Ponte è quello che collega Venezia alla terra ferma, che di fatto salva l'Europa da status di isola), può avere dei momenti di smarrimento, l'ago della bussola interna impazzisce, inizia a sudare freddo, subisce la saudade lagunare.


Da adolescente passare Il Ponte voleva dire, sempre, soffrire di mal d'auto, appena lasciata la laguna alle spalle (ma a volte prima) la nausea ti colpiva, come per farti pagare l'aver osato abbandonare (anche se per poco) Venezia.


Il giorno che andai per la prima volta da solo a Mestre avrò avuto 14 anni, l'unico motivo che mi spinse a farlo fu quello di cercare l'ultimo album di Bob Marley che ancora mi mancava, un mio compagno di classe mi aveva segnalato il negozio di dischi che avrebbe dovuto averlo.


Preso l'autobus il numero "7" scesi alla fermata indicata dal mio amico, guardai a sinistra e a destra (che non si sa mai) attraversai la strada ed entrai nel negozio che si trovava difronte.


L'ultima copia del doppio vinile "Babylon By Bus" era ancora avvolta nella plastica, mi ci avventai come un falco pellegrino (si sa, a volte la "camoma" si dimentica).




Appena uscito dal negozio mi fermai ad ammirare il mio acquisto.

A dire il vero, con il senno di poi, il doppio live non è un granché, soprattutto se paragonato al primo, immortale "Live" di Bob Marley, però la grafica e il packaging ideati da Neville Garrick erano (e sono ancora) stupendi.

Il doppio vinile si apre come un libro, le facciate interne sono ricche di immagini dei concerti e di tutto quello che ci andava attorno (biglietti, locandine etc).

Con un colpo di genio Garrick piazza in copertina, che di fatto è il frontale di un camion, due buchi veri al posto dei parabrezza, e siccome le buste contenenti il vinile sono a loro volta coperte di fotografie, basta cambiare l'ordine dei vinile per creare una copertina diversa.

Avevo il tanto agognato doppio LP in mano, la mia missione era compiuta, decisi che non c'era alcun motivo per fermarmi ancora, così tornai alla fermata del autobus. Ora, e questa è una certezza, gli imbarcaderi dei vaporetti sono sempre gli stessi, sia per l'andata che per il ritorno, se devi tornare indietro di certo non vai dall'altro lato del Canal Grande. 

A quanto pare gli autobus non funzionano così, salii sul primo "7" in arrivo, felice di tornare a casa, ma dopo 10 minuti il paesaggio che vedevo dai finestrini divenne sempre più verde, campi e alberi presero il posto delle case, la mia nausea aumentò a livelli preoccupanti, finchè trovai il coraggio di chiedere ad una signora se stavamo andando a Venezia.
La tipa mi guardò come si guarda un bambino quando chiede se babbo Nalate esiste e mi disse che per andare a Venezia, dovevo scendere, attraversare la strada e prendere l'autobus che andava in direzione opposta, fu indubbiamente uno dei migliori consigli ricevuti nella mia vita.

Con calma arrivò l'autobus giusto, e mano a mano che procedevo verso Venezia il mio organismo tornò alla  normalità, immagino fosse la stessa sensazione che può provare Superman una volta che si allontana da una miniera di kryptonite: i battiti del cuore rallentarono, smisi di sudare e la nausea divenne sempre più lieve, e arrivai a casa sano e salvo.


Anche adesso, ogni volta che apro quel doppio vinile, tra le fotografie di stadi stracolmi di persone, di biglietti d'ingresso e di ritagli di giornale, vedo un autobus che sfreccia veloce,  e i verdi campi della periferia di Mestre che si rincorrono dai finestrini.








mercoledì 12 febbraio 2014

Cinema # 1 - Stalker

It is so quiet out here, it is the quietest place in the world.
Stalker - Andrei Tarkovskij



Me ne accorsi un pomeriggio, per sbaglio. Al buio sentii dei colpi sordi, regolari, come un battito di un cuore gigantesco. Un rumore di fondo abbastanza forte da non passare inosservato.




Me ne stavo seduto su una delle scomode sedie di legno del Cinema Accademia, il cui comfort era fermo agli anni '50, quel cinema di Venezia però svolgeva il proprio compito con dignità, offrendo pomeriggi indimenticabili a cinefili, studenti, pensionati e perditempo (spesso ruoli tutti concentrati in un'unica persona).
Ero al terzo pomeriggio di una rassegna su due maestri del cinema russo di ieri e di oggi (adesso dell'altro ieri e di ieri).  I primi due pomeriggi li avevo passati a "godermi" le proiezioni di un film di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn seguito da uno di Andrei Tarkovskij. Ammetto che il secondo film, in entrambi i casi, era risultato fatale per la mia tenuta, finendo per farmi crollare prima dei titoli di coda, il che aveva fatto maturare in me l'idea che i film del compagno Tarkovskij fossero una palla insostenibile.

La teoria fu smentita quel pomeriggio, quando iniziai la rassegna partendo dal film di Tarkovskij, guardando quello di Ėjzenštejn come secondo, infatti l'abbiocco mi colpì a metà di questo (non mi ricordo il titolo), a conferma che il problema non era l'autore, ma semplicemente la quantità di cinema sovietico che il mio organismo poteva assorbire senza crollare nell'arco di un pomeriggio.

Comunque, me ne stavo li, a guardare "Stalker", e quasi quasi ci capivo qualcosa.
C'erano due tipi che entravano in una specie di zona probita, accompagnati da una guida illegale, uno "Stalker" appunto, che si orientava lanciando sassi a casaccio (se non mi ricordo male). Come se solamente questo gesto poetico potesse guidare gli uomini attraverso l'impervia terra misteriosa (metafora della vita?), o almeno così mi pareva.
Il tutto veniva accompagnato da "acqua" in pieno stile Tarkovskij: pozzanghere, piccoli ruscelli, acqua che scendeva lentamente dai muri.
Poi all'improvviso mi accorsi di quei tonfi, quel rumore sordo che echeggiava debolmente al buio, partendo dalla parte destra dello schermo, un inspiegabile fenomeno che continuò per tutto il pomeriggio.

Riuscii a sopravvivere all'intera rassegna sul cinema sovietico, e facendo parte di almeno tre delle categorie di frequentatori (no, non ero il pensionato), tornai molte altre volte in quel cinema.
Purtroppo però le proiezioni continuarono ad essere disturbate da quei colpi sordi, che iniziavano sempre verso il tardo pomeriggio, per poi improvvisamente sparire.
 
Come era prevedibile, il cinema Accademia ad un certo punto chiuse, e tutto finì.

Mesi dopo me ne stavo a Los Angeles, a fare il factotum nella cucina di un ristorante italiano, circondato da amorevoli messicani.

L'aiuto cuoco (all'epoca la parola chef si usava con parsimonia) era un messicano enorme, di nome Salvador, con baffo di ordinanza e un grembiule così unto che ci misi un paio di settimane per capire che non era di tela cerata.

Parlava l'inglese del messicano immigrato dei film, con un vocabolario da ciclista, ad eccezione della frase "I beg you perdon" che ripeteva, con perfetto accento british, ogni volta che non capiva qualcosa, cioè abbastanza frequentemente.

In quanto factotum mi capitava di coprire i vari buchi dello staff, un giorno fui assegnato al frigorifero, dovevo cioè recuperare dalla cella frigorifera gli ingredienti che di volta in volta mi chiedeva Salvador.
La comanda appena arrivata era per un piatto di scaloppine al marsala, presi un pezzo di vitello, ne tagliai alcuni cubetti che passai al gigante messicano e riposi il resto in frigorifero.
Fu in quel momento che sentii il tonfo, quel rumore sordo così simile a quello che avevo sentito al cinema Accademia anni prima, mi girai e vidi Salvador con il batticarne assottigliare i cubetti di vitello trasformandoli in scaloppine, ed ebbi un'epifania.

Adiacente allo schermo del cinema c'era la cucina di un ristorante, i rumori, che avevano accompagnato gran parte dei film, visti seduto su quelle scomode sedie di legno, erano pezzi di carne di vitello che diventavano scaloppine.
Avevo dovuto attraversare mezzo mondo per risolvere un enigma che mi assillava da anni.

"Non ci posso credere, tutto questo tempo, e alla fine si trattata di scaloppine..." esclamai a voce alta, come da pronostico Salvador mi guardò e sfoderò il suo classico "I beg  you perdon?".


lunedì 10 febbraio 2014

Musica # 2 - Innocent when you dream


It's such a sad old feeling
the fields are soft and green
it's memories that I'm stealing
but you're innocent when you dream


Innocent when you dream - Tom Waits


“I learned this song when I was a child....it’s a lie”. Tom Waits inizia così “Innocent when you dream”, in una delle versioni live che si può trovare su You Tube, continua per un po’, raccontando aneddoti poco probabili fino a quanto inizia a cantare, con quella voce da orco tabagista, di campanili, prati soffici e verdi, e di illusioni.



Il brano si trova in "Frank's wild years", uno dei vari album capolavoro che Tom Waits sfornò negli anni '80, la canzone viene inserita in due versioni, quella standard (Barroom) nel lato A del vinile, e quella registrata nel 78, quasi 10 anni prima, nel lato B.
Immagino dovesse piacere molto, ed il pezzo effettivamente è uno di quelli che ti si appiccica addosso, per non andarsene più.
Suona come una ninna nanna per alcolisti romantici, con quelle immagini cantate da Tom Waits che sembrano uscire dalle casse dello stereo per materializzarsi davanti ai tuoi occhi.
Non ho idea del motivo che ha spinto Tom Waits ad iniziare quel brano live con tutta la pantomima sulle bugie, forse la necessità di preparare il pubblico alle illusioni create da questo pezzo.

Dal canto mio ho sempre pensato che una bugia sia come una partita di tennis, bisogna almeno essere in due perché funzioni: chi la racconta e chi ci crede, le motivazioni però possono essere diverse.

Si racconta una bugia per amore, per convenienza, per pigrizia o stupidità, oppure semplicemente per il gusto di farlo. Chi ci crede invece di solito lo fa perché lo vuole, perché, anche se improbabile, preferisce la storia raccontata dalla bugia alla realtà.
Credi all'amore della tua vita, che ti guarda e ti dice che le cose si sistemeranno, mentre sai che tutto si sta sfasciando, e ti resteranno un po' di ricordi e un mucchio di macerie per ricominciare.
Credi al dottore che dopo aver visitato tuo padre ti racconta che andrà tutto bene, ma quando lo accompagni alla porta, scorgi dal suo sguardo che non è così, e vorresti non averlo capito.
Credi che la meringata sia un dono divino, che non faccia male, e una volta alla settimana, come in un rito laico, te ne mangi 4 etti (in questo caso, nemmeno troppo raro, chi racconta la bugia e chi ci crede sono la stessa persona).

Come ogni bambino, anche io amavo gli animali, quando avevo 10 anni un mio cugino, molto più grande di me (al punto che aveva un figlio quasi della mia età) mi disse che, il giorno dopo, sarebbe riuscito a portare un cavallo sotto casa mia.
Un cavallo in carne ed ossa, a Venezia! Incredibile, ero il bambino più fortunato del mondo.
Confidai quello che doveva essere un segreto ad un paio di miei amici, ai quali diedi appuntamento per la mattina successiva.

Ero così elettrizzato che quella notte dormii a stento. Il giorno dopo, alle 7 del mattino, eravamo già sotto casa mia, mio cugino disse di aspettare un momento, che sarebbe tornato subito con il cavallo.
Dopo un paio di minuti arrivò scuro in volto, ci disse che il cavallo era scappato, e ci portò a vedere le briglie ancora attaccate ad portone.
La mia delusione fu enorme, ci misi un po' (forse troppo per la mia età) a capire che il cavallo non era mai esistito, e che si era trattato semplicemente di uno scherzo. Feci la figura dello stupido credulone, ma il mio desiderio di accarezzare un cavallo, la mia voglia di credere a quella bugia, era di gran lunga maggiore della mia volontà di capire la realtà.
Mio cugino si divertì un sacco, tutti mi presero in giro per giorni, poveri illusi, come se loro non avessero bugie alle quali ogni giorno credere. Dopo tutti questi anni perà non ho mai capito che soddisfazione potesse dare ad un adulto prendere in giro un bambino.

Inutile dire che non bastò quella delusione per farmi smettere di sognare l'incontro con un cavallo tra le calli di Venezia, e anche adesso, ogni tanto giro l'angolo di una calle apettandomi una sorpresa.
Invece quel mio cugino lo incrocio ancora, non credo nemmeno si ricordi più dello scherzo "geniale" che mi fece, in compenso però, a giorni alterni, esce dall’edicola con “Il Giornale” e “Libero” belli in evidenza sotto il braccio. 
Io almeno avevo un sogno grande come un cavallo, ma Feltri e Belpietro, che sogno gli potranno mai raccontare?