giovedì 26 giugno 2014

Musica # 16 - Blue Haways


Blue Haway, a dream in a dream
just Haway , cream in cream
Haway Haway blue and… far away…

Blue Haways - Paolo Conte



Le cose cambiano, come diceva il titolo di un film di David Mamet, alcune volte invece "Le cose finiscono", e quando succede è brutto, semplice così.

Solamente se le cose in questione ti piacciono, o
vviamente, ma se si tratta invece di qualcosa di fastidioso, tipo "Glissando", un oscuro film rumeno di metà anni '80, il cui pregio maggiore è appunto che finisce, vi assicuro che è una cosa positiva. Durante la proiezione serale ad una Mostra del Cinema di Venezia,  ho lottato per sfuggire all'abbraccio di Morfeo come nemmeno Maradona contro Gentile ai Mondiali del 1982.

Quando però a finire sono le storie d'amore, non c'è "d'altro canto" che tenga,  il bicchiere non è né mezzo pieno né mezzo vuoto, il bicchiere non c'è più e basta.

La mia prima ragazza era una studentessa fuori sede dai capelli ricci e neri, facevamo quello che gli universitari fuori sede fanno di solito, e poi ogni tanto studiavamo.

Nell'estate passata con lei, mi portò a vedere il mio primo e ultimo concerto di De Andrè, le sarò eternamente grato per questo.

Quando, sulle strofe di "Andrea" (Andrea aveva un amore, riccioli neri /  Andrea aveva un dolore, riccioli neri) 
le sorrisi, non prestai molta attenzione alle parole, altrimenti avrei letto tra le righe la profezia, la promessa di dolore che i suoi riccioli neri mi avrebbero causato.

Neanche sei mesi dopo se ne andò ad abitare a Padova, da un suo "amico", un tizio ricco e con una carriera brillante davanti a se, fascista fino al midollo.  Lasciato per uno uomo pieno di autostima e con simpatie per la destra più radicale, una costante della mia vita a quanto pare. Una specie di flashforward di quello che mi succederà di nuovo dopo molti anni.

Una sera mi chiamò a casa, non c'erano i telefonini all'epoca, per dirmi che era finita e poi agganciò, ma a me non bastava, volevo che mi spiegasse il motivo, dove avevo sbagliato.

L'unico modo per parlarci era quello di chiamarla dall'amico, era sera, buio, faceva freddo e la pioggia iniziava a cadere, uscii di casa e scelsi la cabina telefonica delle Fondamente Nove, l'unica in zona che mi avrebbe protetto dalla pioggia.

Rispose lui, pochi secondi di silenzio ed ecco la voce della mia ex ragazza.


Le chiesi cosa stesse succedendo, volevo capire cosa avevo fatto, perché era tutto finito. Mentre parlava mi ricordai del concerto di Paolo Conte visto assieme a lei, e di una sua canzone, la mia preferita, che nemmeno quella volta cantò. Le prime parole già spiegano tutto:

 "Cercavo una donna / e ho trovato una commedia".

Sono aggrappato alla cornetta di un telefono pubblico, come un naufrago in mezzo alla tempesta, a cercare di capire perché, lei è a pochi chilometri di distanza, ma lontanissima nel tempo e nello spazio.


Reperto # 1 - Biglietto concerto Paolo Conte
La sua voce è sempre più lontana, dice cose che non capisco, la pioggia spinta dal forte vento frusta la cabina, ne colpisce i vetri e scende come ruscelli verticali, come lacrime.

Nella mia testa ancora Conte, che mi bisbiglia all'orecchio con quella sua voce da crooner astigiano:

"Sì, tu parlavi difficile / come fa l'Europa quando piove
e si rintana a dipingere / le isole del sogno
io non sapevo risponderti /perché ascoltavo la pioggia"


Mi ritrovo calmo, a guardare la pioggia che disegna percorsi irregolari sui vetri della cabina, e il rumore che fa, colpendo il tetto, lentamente copre la voce che esce, per me sempre più flebile, dalla cornetta.

Capisco che è tutto finito, aggancio ed esco che piove ancora, ma a quel punto non ci faccio più caso.

Dopo quella telefonata ci sentimmo un altro paio di volte, e poi non ebbi più sue notizie, fino ad un paio di anni fa.
Fu bello ritrovarla, lei mi raccontò quello che aveva fatto in tutto quel tempo, io, con il Fair Play che mi contraddistingue le chiesi subito come stava il Fascio, lei mi disse che l'aveva lasciato pochi giorni prima del matrimonio, con l'ovvio, conseguente strascico di dolore e senso di colpa.
L'avessi saputo all'epoca, avrei esposto un tazebao di venti metri sul campanile di San Marco con su scritto in gigantesche lettere rosse: "Go caro" (per i non veneziani traducibile con un "ben ti sta e ci godo pure"), e invece mi sorpresi (quasi) indifferente.

Si dice che la vendetta è un piatto che va servito freddo, ma dopo tutto quegli anni avevo l'impressione di trovarmi davanti ad una bistecca congelata.
Il tempo è gentiluomo, e finisce per farti ricordare solamente le cose belle, quelle che finisco appunto.


In merito all'altro Fascio, quello più attuale, non ci conto tanto, come dicono gli americani "I won't hold my breath", ma nel dubbio ho già comperato la vernice rossa.


domenica 22 giugno 2014

Sport # 6 - La Reyer

"Ho perduto mio cane lupo"
Brian Jackson, dalle parti del Rio Terà Barba Frutariol, 
Venezia primavera 1983


Mi ero ripromesso di aspettare il ritorno della Reyer in A1 per entrare ancora una volta nel palazzetto dell'Arsenale, quella specie di UFO di cemento incastrato tra un canale e una calle strettissima nel cuore d Venezia, vicino appunto all'Arsenale.
Invece qualcuno pensò bene di far notare che quella struttura, costruita pochi anni prima con le solite deroghe veneziane, non poteva più ospitare eventi con quel numero di spettatori, visto che le uscite di sicurezza davano direttamente sul canale, così la Reyer fu costretta all'esodo a Mestre, al pari di decine di migliaia di altri veneziani, e si trasferì in un palazzetto più grande, forse più sicuro, ma con le strade attorno dall'inclinazione all'ingorgo degna di una metropoli del sud est asiatico.

In realtà all'Arsenale ci ritornai, per altri motivi, qualche anno dopo aver visto l'ultima partita della Reyer, quando l'azienda per la quale lavoravo all'epoca sponsorizzò uno spettacolo con un mini stand, così per la prima volta calpestai quel parquet che per anni era stata la Casa del mio personale Olimpo degli dei.
Le gradinate facevano paura anche da adulto, mancavano i tifosi ma soprattutto mancava il suono caratteristico di ogni partita, quella specie di squittio che le scarpe da basket creano strisciando sul legno del parquet e i tonfi sordi della palla che rimbalza. 
Dopo un po' mi accorsi di un'altra assenza, ben più grave. I due canestri non erano al loro posto, se ne stavano in un angolo, ripiegati su se stessi, come scheletri di pterodattili. 
No, non fu una bella immagine.

Se la montagna non va da Maometto, Maometto va alla montagna, e un paio di anni fa mi arresi all’evidenza e andai a Mestre, per vedere una partita di serie A1 di una nuova, frizzante Reyer.
L'incontro non mi regalò grandi emozioni, qualche buona giocata da tutte due le parti, che applaudii in ugual misura, ma niente di più. Il settore dei tifosi della Reyer non smise mai di incitare la squadra, prima cantando "El Gondolier. Pope, oe!" (non sarà  l’Inno Sovietico, ma qualche brivido lo regala ugualmente), poi passando ad un coro incomprensibile, urlato sulla melodia di “Sound of Silent” di Simon & Garfunkel, versione Eiffel 65, infine qualche cretino lanciò palle di carta in campo, evidentemente la multa non la pagava lui.
Ogni tanto li guardavo, con un sentimento di ammirazione misto invidia, sempre in piedi a spingere la squadra verso la vittoria (che in quella occasione non arrivò), non mi aspettavo niente di diverso, ma usando le parole di De Andrè, “fossi stato loro posto... ma al loro posto non ci so stare”.
Il giorno dopo lessi sulla pagina FB ufficiale della Reyer, un intervento al vetriolo di un vero tifoso, probabilmente uno di quelli che avevano cantato per tutta la partita, che se la prendeva con le cosiddette “mummie” della tribuna, colpevoli secondo lui di poca passione nei confronti della squadra.

Io avrei voluto rispondergli, iniziai pure a scrivere qualcosa, ma poi decisi che non era il caso.

Loro giustamente vedevano una squadra, io invece un insieme di uomini. Come avrei potuto spiegargli che non ce la facevo proprio, non potevo assolutamente cantare cori per dei giocatori che, nella migliore delle ipotesi, finivano le Elementari quando io ottenevo un risicato 37 all’esame di maturità?

Il mio personale Olimpo degli dei era fatto di Uomini diversi.
Avrei dovuto raccontargli di quando aiutai un Brian Jackson disperato nella ricerca del suo cane lupo dalle parti del Rio Terà Barba Frutariol (che nome magnifico per una strada!) o di quelle volte che il mio compagno di classe si alzava alle 5 di mattina per andare con lui e la sua scassatissima barchetta di plastica arancione,  a pescare seppioline alle Fondamente Nove.



Autografo con dedica di Brian Jackson,  #14

Magari gli potevo spiegare che il contributo migliore che portò alla Reyer Leon Douglas nelle poche partite giocate fu la splendida moglie, una panterona nera, sogno erotico neanche troppo nascosto di tutti i supporter granata, alla quale dedicarono più applausi che al marito.

Come descrivergli l’emozione che provai quando vidi Floyd Allen attraversare la Strada Nova come fosse una divinità africana alta più di 2 metri. Sembrava dividere la folla come Mosè con il Mar Rosso, con un’eleganza altera, a dispetto dei suoi giganteschi mocassini che continuavano a scivolare sui masegni levigati.
Potevo scrivergli di Carlo Spillare, la bionda guardia di Vicenza, che si era guadagnato una nomea di tiratore discreto dalla linea dei 3 punti (ma per noi era una superstar) e che ogni volta che oltrepassava la linea di metà campo si sentiva urlare dal pubblico “Tira! Tira!”.
Potevo raccontargli di quella volta che vidi con i miei occhi Aldo Seebold, uno spilungone di Cannaregio, Venezia, con il cognome americano ma il nome da tabaccaio (Aldo, ti me da un pacheto de Camel Blu?), segnare 14 punti, con  2 su 2 nei tiri liberi e 6 su 6 su azione,  incluso  un ultimo, delirante “gancio cielo”, che ci portò in paradiso.



Tabellino della partita Giomo - Rivestoni, da notare i nomi degli spettatori VIP

Mi dispiace davvero, ma come avrei potuto cambiare il caschetto biondo di Jackson, le spalle strette di Seebold e il baffo triste di Praja, per un polacco qualsiasi, per quanto generoso? Niente di personale, ma certe cose non si fanno.

Forse però avrei potuto rispondergli come fece una volta Dalipagic.
Il mio solito amico che si allenava dopo la Reyer andava spesso mezz'ora prima per vedere Praja in azione, per sua stessa ammissione l’ammirazione spesso virava verso l’umiliazione, al punto che ogni volta si chiedeva se praticassero lo stesso sport, un po’ come quando vedi Rocco Siffredi in azione, e poi ti sbirci tra le mutande.

Quella volta il drago di Mostar, sempre con l’assistenza del solito ragazzino, si allenava dalla linea dei 3 punti. Il mio amico lo guardò infilare il canestro 49 volte su 49 tentativi, al cinquantesimo tiro la palla toccò il ferro ed uscì, il ragazzino la recuperò e fece per darla a Dalipagic, lui lo guardò e, con la solita espressione impassibile disse: “Vado a fare doccia”.


mercoledì 18 giugno 2014

Sport # 5 - Quindici Mondiali

Una volta un mio amico mi confessò di essersi sentito vecchio quando, sfogliando l'album Panini, si era accorto che quasi tutti i calciatori erano più giovani di lui. Io gli dissi che fino a quando avesse continuato a sfogliare un album Panini, non sarebbe mai diventato vecchio per davvero.

L'età di un uomo si capisce dal numero di Mondiali di calcio che riesce a ricordarsi, basta contarli come i cerchi nei tronchi o le piastre sul carapace delle tartarughe, l'importante è ricordarsi che il rapporto è "1=4".

Il nonno di un mio amico era nato nel 1898, da grande appassionato di calcio si ricordava di ogni singolo Mondiale del quale era stato testimone, e parliamo di molti campionati, incluso il primo, quello svoltosi in Uruguay nel 1930.
L'Italia non partecipò a quei Mondiali, perciò tutto sommato non credo che avesse grande memoria di quelle partite, i cui resoconti arrivavano spesso con mezze giornate di ritardo.

Però a partire dal Mondiale successivo tutto cambiò, si ricordava con orgoglio dei due Campionati vinti dalla nazionale guidata da Pozzo, nel 1934 e nel 1938, soprattutto quest'ultimo, vinto in casa degli odiati "cugini" francesi.

Del 1950 aveva un ricordo sbiadito, un po' come la nostra Nazionale di quel Mondiale. Il nostro calcio doveva ancora riprendersi dalla tragedia del Superga avvenuta l'anno prima, quando la scomparsa del grande Toro portò via anche  9 titolari della nazionale.
I nuovi giocatori si rifiutarono di prendere l'aereo per andare in Brasile e intrapresero un estenuante viaggio in nave. Il piano era quello di sfruttare la traversata per allenarsi, ma in pochi giorni, uno ad uno tutti i palloni finirono in acqua e così la preparazione andò a farsi benedire. In Cheba (per gli amici non veneziani, un patronato per soli ragazzi con il campo da calcetto che costeggiava le Fondamente Nove, direttamente sulla Laguna Nord) il problema del "pallone a mare" era stato risolto con un retino legato ad una pertica di 5/6 metri, intuisco che non ci fosse nessun veneziano nella spedizione di quei Mondiali.

Nel 1954 il viaggio non fu un problema, visto che si giocava in Svizzera, ma con sommo dolore dei nostri emigranti, l'Italia non brillò, iniziando una parabola discendente che toccò il fondo con l'esclusione dalla fase finale in Svezia quattro anni dopo.
In compenso però i Mondiali Svedesi del 1958 videro l'esordio di un protagonista che diventerà l'assoluto dittatore di questa manifestazione: la TV.
Davanti a si tanta tecnologia i tifosi assistettero increduli alle imprese di diciottenne di colore, i rari tubi catodici restituirono un Brasile fantascientifico, con un tridente in attacco formato da Pelè ed altri due giocatori "bisillabi", Didì e Vavà.

L'Italia tornò ai Mondiali Cileni del 1962, la squadra non era eccezionale, in più trovò sulla sua strada i padroni di casa e un arbitro non proprio imparziale, le radiocronache dipinsero la sconfitta decisiva contro il Cile con rabbia e rassegnazione.
Non so se il nonno del mio amico se la prese, ma avrebbe avuto modo di arrabbiarsi con gli interessi quattro anni dopo, quando in Inghilterra l'Italia fu sbattuta fuori da un presunto dentista Nord Coreano (e comunista).
Nel 1970, il giorno dopo la finale persa a Città del Messico contro il Brasile di Pelè,  i tifosi italiani si divisero a metà, tra chi aveva capito l'impresa della nazionale (pochi) e quelli che erano rimasti delusi dalla sconfitta finale (la maggior parte).
I girnali dell'epoca raccontano dei numerosi tifosi inferociti che accolsero la spedizione azzurra appena atterrata con lanci di pomodori e altra verdura.

Burgnich che marca Pelè, da notare la coscia destra di Tarcisio


A vedere oggi le immagini della finale, con Pelè che sale in cielo, si ferma un attimo e segna di testa mentre Tarcisio Burgnich (non Chiellini) è già atterrato da 5 minuti, ho l'impressione che quei tifosi no avessero capito contro chi, anzi, contro cosa l'Italia avesse perso quella partita.

Il nonno del mio amico visse ancora a lungo, amando il calcio sempre grande passione, se ne andò nel 1995, prima del Mondiale di Francia, ma non penso che gli importasse poi così tanto, in fin dei conti, lui un Mondiale in Francia l'aveva già vinto, sessanta anni prima.
 
Qualche anno fa il mio amico mi raccontò quello che capitò l'indomani della finale persa dall'Italia a USA 94, contro il Brasile, quando Baggio sbagliò uno dei 3 o 4 rigori di tutta la sua carriera, calciandolo ben oltre la traversa.
Il nonno abitava con loro, non vedendolo scendere per far colazione, il mio amico andò a bussare alla porta della sua camera e quando entrò lo trovò seduto sul letto ancora (o già) fatto, vestito esattamente come la sera prima, con le mani sulla testa.

Quando si accorse del nipote, scosse la testa e con gli occhi umidi disse con un filo di voce: "Sui copi lo gà tirà, sui copi " (ndt "Sui tetti l'ha tirato, sui tetti.").

mercoledì 11 giugno 2014

Sport # 4 - Lo sportivo dell'anno

"Aspetterò lungo la riva del fiume, prima o poi vedrò passare il cadavere del mio nemico."


Non sono riuscito a capire chi abbia pronunciato per primo queste parole, dovrebbe essere un tizio cinese, dunque si tratta di Sun Tzu, di Confucio o di Mao. Oppure semplicemente è stato lo sguattero di qualche ristorante cinese, obbligato a scrivere i messaggi nei biscotti porta fortuna, e poi la cosa ha preso piede.
Quello che è sicuro è che la frase si usa sempre come compensazione per un torto subito, come una promessa di vendetta, quando spaccheresti la faccia a chi ti ha fatto uno sgarro, ma per vari motivi non puoi.
Nella vita reale capita raramente di vedere il cadavere del tuo nemico passarti davanti, e non dipende solamente dalla corrente. Le sconfitte sono come le ciliege, una tira l'altra, e a volte nemmeno lo Zambesi in piena potrebbe renderti giustizia.


Il primo anno da "Giovanissimo" (una delle categorie delle squadre giovanili di calcio) fu particolarmente tormentato. Ero tra i più piccoli d'età del gruppo, probabilmente il meno bravo, sopperivo però alla mancanza di tecnica con un impegno straordinario.

Durante gli allenamenti ero il primo ad entrate e l'ultimo ad uscire, ma in qualche modo l'allenatore non mi considerava. Iniziai a nutrire dei sospetti quando dopo qualche giornata ci trovammo in emergenza. L'ultimo allenamento prima della partita contai i giocatori a disposizione, con me eravamo 11, finalmente dopo quasi 2 mesi avrei fatto li mio esordio.
La domenica il "mister" pensò bene di convocare 2 ragazzi della squadra più giovane, così mi ritrovai ancora una volta in panchina. E questo continuò fino alla fine del campionato.


La squadra vinceva sempre, sembrava logico non cambiare i titolari, l'allenatore poi era vecchio stile e non aveva certamente la stoffa dell'educatore.
Uno dei suoi cavalli di battaglia era "Vi credete forti? Se mi lego le mani dietro la schiena vi spacco il culo solamente a testate", scuola Montessorri praticamente.
Il tipo era così cretino che una volta trovò scritto sui muri dello spogliatoio il suo cognome con a fianco una parolaccia (il marito di "cassa"). Andò su tutte le furie, si procurò un pennarello e chiese a tutti di scrivere  (giuro che è vero) la stessa parola sul muro per mettete a confronto la calligrafia.
Con un personaggio del genere non avevo speranze.

Foto della rosa completa, il secondo in basso da destra, il futuro "Sportivo dell'anno"
Ciò nonostante continuavo ad allenarmi, due volte alla settimana, il Martedì e il Giovedì, come nulla fosse. La situazione era così palesemente anomala che pure alcuni miei compagni di squadra iniziarono a lamentarsi, ma nulla cambiò.


Chiusi l'anno con in totale due misere apparizioni: 20 minuti sul campo di San Donà (una specie di oratorio/arena di sabbia, con il  pubblico composto in prevalenza da ultras Serbi) e il primo tempo dell'ultima partita in casa, unica presenza come titolare, solamente perché il dodicesimo giocatore arrivò troppo tardi. Due sole presenze, come il numero di allenamenti saltati in tutto a stagione.


L'anno successivo per motivi di età quasi tutta la squadra passò alla categoria maggiore, "Allievi", anche se per alcuni dei miei compagni sarebbe stato più logico aspettarsi il trasferimento in Riformatorio, ma quella è un'altra storia.

Iniziai a giocare sempre da titolare, ma poi finii per fare il rincalzo alla squadra degli "Allievi" coprendo tutti i ruoli, incluso anche quello del portiere (vedi Guy Goma).

Fu verso Natale di quell'anno che successe una cosa bizzarra e imprevedibile, la corrente del fiume cambiò direzione e vidi passare, per la prima e ultima volta nella mia vita, il cadavere del mio nemico.
Ogni anno tutti gli atleti delle varie polisportive della zona venivano invitati al Palasport per una specie di festa di Natale, occasione per scambiarsi gli auguri e per premiare gli atleti che meglio si erano distinti l'anno precedente.
In un palazzetto stracolmo di ragazzini dai dieci ai diciotto anni, tutti in attesa di una fetta di pandoro, iniziarono le premiazioni. Arrivati a quelle per il calcio sentii il mio nome, pensai ad un errore, poi un mio compagno mi disse che davvero mi stavano chiamando. 
Così mi trascinai lentamente sul palco, dove un dirigente sportivo della mia società (che l'anno prima ovviamente non aveva mosso un dito) mi diede una targa con il mio nome, con su scritto "Sportivo dell'anno", mi ringraziò pubblicamente per il mio impegno e per aver onorato lo Sport. 

Stretta di mano e foto ricordo.

Evidentemente qualcuno si era accorto del mio impegno, avrei dovuto ringraziare l'allenatore che mi aveva permesso di vincere il premio, ma era inutile cercarlo nel pubblico, perchè era stato cacciato ad inizio anno.
Però mentre tornavo a casa, forse a causa del buio, sull'acqua del canale vicino al Palasport mi sembrò di intravedere qualcosa galleggiare verso di me, ma quando passai sotto i lampione mi accorsi che si trattava solamente di un gioco d'ombre. Oppure no?


Lo Zen e l'arte di vincere un premio senza giocare.