giovedì 28 agosto 2014

Musica # 20 - Pink Moon

Saw it written and I saw it say 
Pink moon is on its way 
And none of you stand so tall 
Pink moon gonna get ye all 
And it’s a pink moon

Pink Moon - Nick Drake 1972


Da ragazzo, mentre frequentavo le scuole superiori, invidiavo quelli che a casa avevano "Lo Stereo":  piatto tedesco, casse svedesi, amplificatore giapponese, il tutto per una cifra inarrivabile per le mie misere entrate annuali.
C'è da dire che a volte l'impianto se lo ritrovano grazie a fratelli maggiori, altre volte a quell'altare di tecnologia venivano immolati vinili ignobili, da Baglioni a Phil Collins.

In quegli anni investivo in dischi (ma questo ormai lo sapete già) che ascoltavo sul giradischi italiano di mio padre. Dopo molto tempo riuscii ad acquistare un piatto da un mio amico, che stava passando ad un modello successivo, ma questo non mi bastava.

Finito il servizio militare trovai un lavoro per le vacanze di Natale presso un rifugio dalle parti di Cortina, i proprietari erano un ampezzano D.O.C. e sua moglie, una furlana che odiava i comunisti solamente meno delle tasse (anche se ai suoi occhi erano la stessa cosa). Lavoravano 16 ore al giorno, e noi con loro. Io stavo in cucina a fare lo sguattero, giusto per ricordare i miei tempi a Los Angeles, solamente che in quel rifugio la cucina si lavava 2 volte al giorno, nella splendida California non mi ricordo di averlo fatto più di una volta a settimana.

Alla fine tornai con un certo gruzzoletto, avevo lo stereo nuovo (quasi, di seconda mano) ma mi mancava la piastra, ovvero l'apparecchio per ascoltare e registrare le cassette.

Per una volta decisi di puntare al meglio, sempre con un occhio alle mie finanze, e acquistai una fiammante doppia piastra dell'AIWA da Barera, uno dei più prestigiosi negozi di stereofonia di Venezia (adesso credo sia diventato un negozio di scarpe).

Con questa a doppia piastra potevo non solo passare i vinili su nastro, ma addirittura duplicare tutte le cassette che volevo, e, attenzione, pure a doppia velocità.

Devo fare una confessione, ognuno ha un segreto oscuro nel proprio passato musicale, il mio è una certa ammirazione per i Queen, anche se a mia parziale  discolpa c'è da dire che mi ero fatto incantare dalle gesta di Christophe Lambert in  "Highlander", e di conseguenza dalla colonna sonora di quel film
Scuse a parte cercavo in qualche modo di recuperare tutta la loro musica, così un mio amico mi prestò una C90 (per quelli nati dopo il 1985, trattasi di una cassetta con nastro magnetico che può contenere fino a 90 minuti di musica totali divisi su due lati, di norma sufficiente per registrare un LP per lato), con un disco dei Queen sul lato A, e qualcun altro sul lato B.

La cassetta mi arrivò posizionata sul lato B, cioè per ascoltare i Queen avrei dovuto riavvolgere il nastro.  Mettici la pigrizia, e un po' di curiosità decisi che visto che c'ero, quel tizio registrato per riempire la C90 potevo pure ascoltarlo.

Non potevo sapere in che abisso di dolce malinconia mi sarei cacciato.

Voce e chitarra che più semplici e più complesse al tempo stesso non possono essere, 11 perle che sembrano fotografie in bianco e nero, avvolte nella nebbia inglese, e una sola canzone, "Pink Moon", con poche note di pianoforte suonate dallo stesso Drake, pianoforte che appare per pochi secondi per non ritornare più per tutto il disco, note come macchie di colore, che da sole valgono l'intera discografia di Mango.

Ventotto minuti, o poco più, Miruts Yifter riusciva a correrci tranquillamente i 10.000, fare il giro d'onore con la bandiera sulle spalle e farsi fotografare. Io in quella scarsa mezz'ora di Nick Drake mi ci persi, finito il nastro lo riavvolsi (Queen chi?) e lo ascoltai di nuovo.

Da dove diavolo sbucava questo tizio? Dove si era nascosto per tutto questo tempo?

Scoprii dopo che Nick Drake era un ragazzone inglese timido, alto quasi 2 metri, che aveva fatto in tempo a registrare 3 dischi, incredibilmente invisibili per i suoi contemporanei, prima di decidere di andarsene un pomeriggio di Novembre, a 26 anni.
All'epoca era ritornato ad abitare con i genitori, dopo le delusioni della sua vita d'artista a Londra, una sera salì nella sua cameretta, mise sul giradischi i concerti brandeburghesi di Bach e ingoiò una manciata di antidepressivi.

Nick Drake da bambino con la madre Molly

Ricordare Nick Drake come un semplice suicida depresso è riduttivo, lo so, ma per molti è la scorciatoia per cercare di capirlo, uno che scriveva canzoni del genere non poteva che finire in quel modo, come uno sconfitto qualsiasi.

Io credo che invece che il suo suicidio sia stato un caso, un finale di romanzo altrimenti meraviglioso, scritto in fretta e male. Il fatto che la sua musica sia stata ignorata mentre era in vita è un'altra casualità, a volte le cose funzionano, a volte no. 

Rodriguez dopo due capolavori fallimentari tornò a fare il muratore, mentre in Sud Africa diventava un mito, e aspettò la gloria (ammesso davvero l'aspettasse) per 40 anni, forse Nick Drake sarebbe diventato un noioso professore di Letteratura Inglese, e magari una leggenda metropolitana in Cile.

La sua musica non era troppo avanti per i suoi anni, semplicemente era altrove, ed è proprio li, altrove, che bisogna andare per ascoltarlo.

Degli insuccessi dei suoi concerti, della sua incredibile tecnica e della sua malinconica breve vita potete leggere sulla pagina di wikipedia, c'è tutto quello che serve per conoscerlo. Ma fino a quando non lo ascolterete, magari su di una vecchia cassetta, probabilmente non lo capirete mai. Delle volte si incontrano capolavori per sbaglio, nascosti sul lato B di una C90, dopo aver attraversato cucine a Cortina, negozi di stereofonia che non esistono più e doppie piastre (ora) obsolete.

Come direbbero i Queen: "It's a kind of Magic".






giovedì 21 agosto 2014

Musica # 19 - Musi-o-tunya

"Dr Livingstone, I presume?"

H.M. Stanley incontrando David Livingstone, 
10 Novembre 1871


Mia zia aveva una gatta soriana, "Perla", abitava nell'appartamento a fianco al mio, assieme a mia zia. Per capirsi erano coinquilini, la gatta e la zia. Come tutti i gatti era curiosa, e ogni tanto approfittando del fatto che le porte dei due appartamenti erano aperte, mi faceva vista, la gatta intendo, ma anche la zia.

Arrivava tranquilla e se ne stava zitta, intendo sempre la gatta, non la zia, lei invece parlava. Tutto sommato non mi dava fastidio, faceva un paio di giri, controllava che tutto fosse a posto e se ne tornava a casa sua, sto sempre parlando della gatta. Facciamo così, per evitare confusioni tutto quello che scrivo in questo post si riferisce alla gatta.

Ogni mese, ma in rare occasioni anche ogni 2 settimane, facevo visita (io da solo, non con la gatta e nemmeno con la zia) al mini negozio di dischi che da poco aveva aperto vicino a casa mia, specializzato in Reggae (indovinato, ha chiuso da anni e adesso c'è un'agenzia immobiliare, da rendere il tuo spirito libero con la poesia di Jah a legarti ad un mutuo MacLeod il passo è stato breve).


Compravo dischi quasi a caso, riuscivo a recuperare qualche informazione in giro, ma sostanzialmente andavo li, mi facevo ispirare dai nomi e dalle copertine e spendevo le mie 15.000 lire.
Jah mi proteggeva, alla fine devo aver preso giusto un paio di "bidoni", avesse avuto la mia guida spirituale Moratti nel calcio mercato dell'Inter, altro che una "triplete" in vent'anni di presidenza.

Da poco avevo comperato Musi-o-tunya dei Misty in Roots, una band Inglese che conoscevo solamente di nome e non avevo mai ascoltato prima, ma quel disco  mi ispirava.

La copertina disegnata da Hilary Paynter

Arrivato a casa me lo ascoltai un paio di volte di seguito, fronte e retro, "roots" allo stato puro, il nome del gruppo non mentiva. 
Il basso usciva dalle casse creando una specie di ragnatela sonora, che mi intrappolava, senza che io facessi troppa resistenza. 
La voce di Delvin Tyson, meno potente e meno carismatica di quella di Burning Spear, cantava di queste cascate magnifiche, tra lo Zambia e lo Zimbabwe.
I Misty in Roots erano la band politicamente più impegnata del reggae UK, meno esplosivi degli Steel Pulse e meno famosi degli Aswad, ma forse i più coerenti. Ad inizio anni '80 si erano trasferiti in Zimbabwe, rimanendoci per quasi un anno, le otto canzoni di "Musi-o-tunya" erano il frutto di quel periodo.
Otto quadri di un Africa non solamente idealizzata, ma anche vissuta, un gran bel disco insomma, anche questa volta Jah mi aveva guidato bene.

Quelle cascate, (le Victoria's falls che tutti da quelle parti chiamano
Musi-o-tunya, Il Fumo che Tuona) che i Misty in Roots aveva inserito nella copertina mi colpirono. Cercai nella vecchia enciclopedia sugli animali che avevo un'immagine delle Cascate di Vittoria, e anche a vederle piccole, da lontano facevano una certa impressione.
 
Nel 2000, l'agenzia di viaggi per la quale lavoravo mi offrì di partecipare ad un Educational/Premio in Africa, un tour di un paio di settimane tra Zambia, Zimbabwe e Botswana, più o meno nell'area attorno cascate di Vittoria.

Sullo sfondo, Musi-o-tunya, da notare
l'immagine di Shaft sulla t-shirt
Non ci potevo credere, dopo aver ascoltato centinaia di volte "Zimbabwe" di Bob Marley e "Musi-o-tunya", sarei davvero andato in Africa.

Incontrai il mio collega/amico Luca all'aeroporto di Johannesburg, poi, con un volo interno, arrivammo a Victoria Falls.
Dall'alto la pista dell'aeroporto non si distingueva dall'aerea tutta attorno, la stagione secca era al suo culmine, e tutta la vegetazione della zona ne portava i segni. L'aereo comunque atterrò senza troppo affanno sulla pista di terra battuta.

Ritirati i bagagli e ottenuto il visto finalmente calpestai la Terra d'Africa, riuscii a resistere alla tentazione di inginocchiarmi e baciare il terreno, come Cristoforo Colombo sbarcato a Santo Domingo, pensai che i fieri Zimbabwani non avrebbe capito il gesto.

Faceva caldo, il sole cadeva perpendicolare sulle nostre teste, e le poche piante piegate dalla siccità faceva del giallo il colore dominante del paesaggio.

L'albergo in cui arrivammo era il più antico della zona, costruito attorno alla fine del 800, lo spirito del glorioso passato coloniale aleggiava nelle stanze, come il fumo delle sigarette nei cinema degli anni '70. 
Posati i bagagli uscimmo a fare un giro, delle scimmie e delle manguste si aggiravano per la strada, a coppie o in piccoli gruppi, con la stessa tranquillità dei piccioni in Piazza San Marco.

Faceva davvero caldo, sembrava che l'erba potesse incendiarsi per autocombustione in qualsiasi istante, ad un certo punto vidi da lontano del fumo, nessuno sembrava curarsene, tesi l'orecchio in quella direzione e lo sentii, nitido, il tuono simile ad un ruggito delle Cascate di Vittoria, Musi-o-tunya.

Quando finalmente mi ci trovai di fronte provai ad immaginare come poteva aver reagito il dottor David Livingstone, il primo europeo a vederle, davanti a tale meraviglia. La stagione secca aveva ridotto l'acqua di quasi la metà, ma ciò nonostante erano uno spettacolo che ti toglieva il fiato.
I Misty in Roots avevano attinto a quelle cascate larghe un chilometro per creare un capolavoro, Musi-o-tunya. 

Mentre ascoltavo quel disco per la prima volta, non potevo certo sperare di trovarmi un giorno davanti allo Zambesi, ma niente mi impediva di sognarlo.
Per il primo mese lo misi sul giradischi almeno un paio di volte a settimana.
Un giorno stavo cucinando accompagnato dal roots reggae della band inglese quando sentii un rumore agghiacciante, che nessun proprietario di un vinile vorrebbe mai sentire.

Corsi in cameretta mia, e Perla, la gatta soriana di mia zia, stava facendo scratching sul lato A del LP, mini trucioli di vinile venivano lanciati in aria dal piatto che girava. Feci un urlo che staccò i poster dal muro, ma la gatta non si scompose nemmeno, mi guardò come solamente un gatto può fare e uscì con calma dalla stanza.

Da quella volta non sono più riuscito ad ascoltare il lato A di quel disco, dicono che non sia male. I presume.


mercoledì 13 agosto 2014

Musica # 18 - Sexual Healing

"Fioi, gavè na biro?"

Anonimo, Giardini Della Biennale, Estate 1985



Ad un certo punto arrivò una richiesta da parte dello "Zio" americano, c'era una ragazza, una delle tante del suo harem, che aveva bisogno di staccarsi dall'atmosfera soffocante di Los Angeles, voleva sapere se potevamo ospitarla per qualche mese.

La casa non era nemmeno di 70 metri quadrati, eravamo già in cinque, ma quando lo "Zio" chiamava, mio padre non poteva dire di no.

June arrivò fresca dei suoi 25 anni, bionda e bella come solamente le californiane potevano essere negli anni '80, e si piazzò in cameretta mia, purtroppo con me fuori, e finii per accamparmi nella stanza dei miei.

La tipa era proprio bella, aveva fatto la modella a LA, cercando come tutte di sfondare nel mondo del cinema, l'apice della sua carriera era stata la partecipazione al video "Pale Shelter" dei Tears For Fear (si, è la ragazza col costume rosso, la stessa che dopo abbraccia il tipo sulla pista dell'aeroporto).
Anche dal vivo si notava, al punto che ogni tanto al citofono di casa nostra suonava qualche bel giovanotto della zona in cerca di lei, mio padre cercava di limitare i danni, e in qualche modo ci riusciva.

Un giorno June, scura in volto, ci disse che Marvin Gaye era stato ucciso dal padre, aveva la faccia stravolta, io reagii come se mi avessero informato dell'assassinio del bassista della cover band lituana dei Matia Bazar. 



Marvin Gaye, Londra 1981

In effetti quel nome non mi era nuovo, mi ricordai dopo di un video che girava su Videomusic (anni '80, giusto?) che si chiamava "Sexual Healing". La mia conoscenza di uno dei più grand cantanti soul si limitava a quello, ma a 15 anni, con un padre che si era fermato a Frank Sinatra e Nat King Cole, saltando direttamente agli Inti-Illimani, potevo essere scusato.

Mio "Zio" arrivò a recuperarla qualche mese dopo, si era portato un'altra tipa, ovviamente, la trovò più tranquilla e ingrassata, a quanto pare smettere di usare cocaina porta anche a questo.

Partì con lui e io finalmente mi riappropriai della mia cameretta.

Quell'estate iniziai ad uscire con degli amici di mia sorella, tutti più grandi di me. Una sera andammo ad una festa Reggae ai Giardini della Biennale, i Pitura Freska non erano ancora esplosi, e non conoscevo nessun altro, al di fuori di me, con la passione per quella musica, perciò ogni occasione per ascoltarla andava presa al volo.

Eravamo appena arrivati quando dalle casse partì "Sexual Healing" versione reggae, di tale Eddie Lovette, al solito feci lo sborone e raccontai a tutti che il vero autore, Marvin Gaye era stato ucciso dal padre pochi mesi prima, mi zittirono con una birra, e fu solo l'inizio.
Estate, caldo, reggae, a metà serata io e uno dei miei amici avevamo già immolato una decina di lattine sull'altare di Bob Marley, nel campionato delle lager viaggiavamo verso una salvezza tranquilla.

La musica finisce, è ormai mezzanotte, quando da un angolo scuro del parco ci viene incontro un tipo, il lampione alle sue spalle crea un effetto “Esorcista” inquietante. Dalla camminata si intuisce che nel campionato delle lager lui sta lottando sicuramente per un posto in Champions. 
Con lo sguardo non proprio da "eye of the tiger" ci chiede in veneziano se abbiamo una biro da prestargli. Il mio amico, che a mia insaputa aveva evidentemente abbandonato i bassi fondi della classifica e ormai puntava chiaramente ad un posto in UEFA, alza una lattina di birra e gli risponde “No, ma se ti vol go na bira”.

Il tipo emerso dal buio si blocca, vedo che dietro quello sguardo annebbiato qualcosa si muove, poi un lampo, ha un sussulto, afferra la lattina. Mentre se ne va si volta e con gli ultimi 32 MB di memoria libera del suo cervello ci dice una cosa che ci lascia impietriti:
“Grazie, ogni arma è utile per un grande guerriero”, e ritorna nel buio, da dove se ne era venuto.

Torniamo a casa, stanchi ma felici, con una perla di saggezza in più da dividere con i posteri.

Mia madre non mi aveva imposto un coprifuoco, l'unica cosa che dovevo fare era quella di avvisarla una vola arrivata a casa.

Con le luci spente mi avvicino al suo lato del letto, puzzo come un tavolo dell'Oktoberfest, le dico che sono arrivato, lei nel dormiveglia mi chiede se ho bevuto della birra.
"Solamente una lattina mamma. Buonanotte".

Mi stendo sul letto, salpo per il Mare del Sonno avvolto nella nebbia dell'alcool, e mentre mi allontano sempre di più, un dubbio mi assale. 

Come diavolo avrà fatto quel tipo a scrivere con una lattina di Forst.




giovedì 7 agosto 2014

Cinema # 5 - Balla con i lupi


John Dunbar: I've always wanted to see the frontier.
Major Fambrough: See the frontier?
John Dunbar: Yes, sir. Before it's gone.

Dance with the wolves


Per un attimo ci spero, sarebbe bello che un proiettile lo colpisse, solamente lui, non il cavallo, e che lo lasciasse secco a terra. Poi penso che se il film finisce adesso, come cazzo devo passare i prossimi 180 minuti in un cinema enorme, al buio?

Per fortuna tutti i colpi vanno a vuoto, John Dunbar/Kevin Costner finisce la sua corsa a cavallo indenne, così il suo maldestro tentativo di suicidio diventa un atto di eroismo, e lui di conseguenza un eroe.

Il film va avanti per circa 3 ore, non è male, per me che "Ombre Rosse" era il soprannome di un vicino di casa frequentatore di baccari, e non il film di John Ford, gli indiani non sono mai stati dei veri nemici, e l'immagine che ne viene fuori da "Balla con i lupi" mi sta bene.

L'ho visto di recente, il film, non è invecchiato male, a differenza dell'attore/regista, la cui interpretazione migliore degli ultimi anni è stata la pubblicità alle scarpe Valleverde.

 

Il super patriottico John Dunbar/Kevin Costner

Comunque me ne sto in quella gigantesca sala al buio con mio padre, non mi ricordo perché siamo andati al cinema assieme, nè tantomeno proprio perchè a Mestre, forse nelle poche sale rimaste a Venezia non lo davano già più.

Finito il film usciamo, mio padre mi vuole offrire la cena, io non ho tanta voglia, da un po' di tempo provo un risentimento nei suoi confronti al quale non riesco a dare un nome.

Camminiamo per dieci minuti per le strade mezze vuote di Mestre, sempre in silenzio, mangiamo una cena veloce in una specie di self service, ci scambiano giusto un paio di parole, così, per educazione.

Mia madre se n'è andata da qualche anno, le mie sorelle abitano da un'altra parte e ormai siamo solamente io e lui, due uomini soli, orfani della stessa donna, separati da oltre quarant'anni di sconfitte (e qualche pareggio).

Con il tempo la situazione tra di noi non migliora, non ne capisco il motivo, poi, durante una serata a base di Porto nel ristorante di Los Angeles ho un'epifania, e scopro da dove viene tutto quel rancore*.

Come la strega Karabà, che durante tutta la storia è più cattiva di Romeo Benetti, ma che appena Kirikù la libera dalla spina conficcata sulla schiena diventa buonissima (e bella), anche io trovo la pace e divento più buono, non che fossi nemmeno lontanamente cattivo come Romeo Benetti (ma in realtà chi può esserlo, se non un personaggio di fantasia come la strega Karabà?).

 
Romeo Benetti con il suo abituale sguardo anti-sommossa

Quando torno in Italia sono più sereno, inizio a parlare con mio padre, vorrei chiedergli un sacco di cose, ma poi l'occasione buona sembra essere sempre quella del giorno dopo, e intanto il tempo passa.

Un lunedì vado a trovarlo in ospedale, mancano cinque giorni al mio compleanno, entro nella sua stanza, vedo il letto rifatto e il comodino pulito, l'altro paziente mi guarda stupefatto e mi dice: 

"Ma come, non ti hanno detto che questa notte è morto?"
"Certo che me l'hanno detto, è che mi sembrava uno scherzo telefonico, così sono venuto a vedere di persona, coglione!", è quello che avrei voluto dirgli, e invece balbetto un "No" e scappo fuori dalla stanza.

Non va bene così, avevo un mille domande da fare a mio padre, volevo sapere com'era stato vivere sotto il fascismo da ragazzino comunista, come aveva reagito quando aveva saputo dell'esplosioni delle bombe atomiche, o dei campi di sterminio nazisti.
Cosa stava facendo mentre l'uomo atterrava sulla Luna, oppure come diavolo aveva fatto a crescere tre figli, io che faccio fatica a crescerne uno.

Volevo sapere se aveva attraversato la vita come John Dunbar/Kevin Costner, al ralenty, in groppa ad un cavallo e ad occhi chiusi, sperando di evitare i proiettili nemici.
Se non era riuscito a vedere la frontiera per colpa nostra, o se eravamo stati noi, i suoi figli, la sua frontiera.

Quella sera, appena uscito dal cinema, mentre cammino tra le strade buie di Mestre ancora non lo so, ma quello è l'ultimo film che vedrò con mio padre. 

Lui mi aveva portato a vedere, tra gli altri, "Cristo si è fermato ad Eboli" e "Apocalypse Now" a nemmeno 12 anni, finire con "Balla con i lupi" non è poi così male.

Se potete, una di queste sere andate a trovare vostro padre, portatelo a cena o, meglio ancora, al cinema, e quando lo riaccompagnate a casa dategli una carezza e ditegli: questa è la carezza del Poltronauta.






*Mi dispiace ma non posso dirlo, è un segreto.