mercoledì 2 aprile 2014

Sport # 2 - Drazen Praja Dalipagic

Una volta ho visto dio, era Jugoslavo, aveva i baffi, una canottiera granata, e giocava a basket. Certo, un dio minore, perchè l'unico vero dio che abbia mai calpestato un campo da basket era nero, pelato e portava il numero 23 sulla schiena.

Drazen Praja Dalipagic, quel signore con le spalle curve e il baffo triste che sembrava camminare per il campo senza nemmeno sudare, era diventato il mio "personal god". 
La partita in cui ebbi la rivelazione fu quella che la Reyer giocò contro la squadra di Udine, nelle cui fila militava un play americano a fine carriera, ma ancora fenomenale, che rispondeva al nome di Larry Wright.
Quell'incontro me lo ricordo come una sfida tra Larry Wright da una parte e Drazen Dalipagic dall'altra, 44 punti per il play americano e 56 per il "Drago di Mostar", 12 punti di differenza, gli stessi che separarono anche le due squadre alla fine della partita.
Forse i numeri reali furono diversi, ma non importa, io me lo ricordo così, il resto non conta.
Dalipagic trascinava con la solita apparente flemma i suoi quasi 2 metri d'altezza in giro per il campo, quando la palla finiva tra le sue mani, lui dava un'occhiata al canestro, tirava e segnava.


Stavo seduto sui gradoni di cemento del palazzetto assieme a Carlo, il mio compagno di classe/amico del cuore/cestista, che mi spiegava un po' meglio le azioni in campo, ma nemmeno lui riusciva a capire quello che stava facendo Drazen.
Purtroppo per Udine, anche il loro allenatore non lo capiva, lo stavo guardando da mezza partita ormai, con il passare dei minuti il linguaggio del suo corpo faceva trapelare un misto tra disperazione e rassegnazione. Aveva caricato la squadra di falli nel vano tentativo di bloccare quella mattanza, tutti i giocatori si erano alternati cercando di fermare Dalipagic, ma quando ad un certo punto Praja, con un difensore aggrappato al collo come fosse un cucciolo di koala, tirò da lontanissimo facendo canestro (e poi segnando anche il tiro libero conseguente al fallo) l'allenatore allargò le braccia in segno di resa, impotente davanti a quell'ennesimo prodigio, e fu in quel momento che io ebbi La Chiamata.
Ero Jake Blues/John Belushida qualche parte il reverendo James Brown mi urlò: "Hai visto la luce!?". Io, estasiato mi alzai in piedi e urlai "Si!", in quel preciso istante il tetto del palazzetto dell'Arsenale si aprì e un fascio di luce colpì il mio viso, mentre angeli con i baffi iniziarono a cantare le lodi del tiro da tre punti.
Forse non andò proprio in questo modo, ora che ci ripenso ho dei dubbi, ma sono passati tanti anni.

La Reyer in quegli anni era davvero la squadra di Venezia, e molti dei suoi giocatori abitavano in città, la casa di Dalipagic ad esempio era vicina alla mia.
Molto spesso mi capitava di vederlo in giro, chiuso in un enorme cappotto beige e in una sciarpa rossa stile Fellini.
Camminava con calma, con la stessa velocità e con la stessa aria pacifica che aveva in campo, rispondeva a chi lo salutava, ma per lo più se ne stava per i fatti propri.

Giravano un sacco di leggende sul suo conto, una delle più divertenti raccontava di quando, a passeggio con la moglie nei giardini di Sant'Elena, passò vicino al campo da basket all'aperto dove stavano giocando dei marinai americani appena sbarcati in città. Durante un'azione la palla finisce fuori del campo, fermandosi a pochi centimetri dal piede di Drazen, lui, con il solito cappotto beige d'ordinanza, la raccoglie e con calma, al posto di passarla all'americano più vicino, tira verso il canestro centrandolo. Gli americani increduli gli restituiscono la palla, lui fa altri 2 passi verso il campo e tira, e segna di nuovo, per farla breve ogni volta che gli passano la palla, lui segna, fino a quando la moglie spazientita lo richiama e il mio dio jugoslavo se ne va, lasciando gli americani ammutoliti.

Visto la sua incredibile abilità nei tiri liberi (nella leggendaria partita nella quale segnò 70 punti, ne infiliò 19 su 19) c'era una storia che girava fatta apposta per spiegare la sua precisione, si raccontava che a fine allenamento, mentre i suoi compagni erano sotto la doccia, lui si mettesse alla lunetta e con gli occhi bendati (alcuni dicevano che usasse la sua inseparabile sciarpa rossa) tirasse un centinaio di tiri liberi di seguito, assistito nel recupero della palla da un ragazzino.
Io per queste storie impazzivo, e finivo per crederci.
A differenza delle altre divinità, gli dei del basket invecchiano, e l'anno successivo, a quasi 37 anni Dalipagic, il drago di Mostar, lasciò Venezia per giocare l'ultima stagione in Italia a Verona.

Passarono molti anni prima che sentissi parlare ancora di Mostar,  improvvisamente non era più nemmeno in Jugoslavia, ma in Bosnia-Herzegovina, la guerra stava dilaniando quella terra e credo che ben pochi pensassero al basket.
Il TG mostrò l'ennesimo crimine di guerra, il meraviglioso antico ponte di pietra sul fiume Neretva (in italiano Narenta), che collegava la parte cristiana della città a quella musulmana, era stato distrutto dall'esercito croato-bosniaco.
Come spesso capita nelle guerre, ci sono simboli che vanno colpiti, e quel ponte era fonte d'imbarazzo, un ostacolo da eliminare per chi voleva dividere quella terra.
Il TG recuperò vecchie immagini, e la curva del ponte mi sembrò familiare, l'arco che si rifletteva sul fiume sottostante ricordava incredibilmente le parabole dei tiri di Dalipagic, come se inconsciamente il drago di Mostar cercasse di ricreare quella curvatura unica ad ogni suo canestro.  
Mi immaginai allora che, finita la guerra, gli ingegneri e gli architetti incaricati della ricostruzione avrebbero chiamato Praja per fargli disegnare La Curva perfetta dalla quale ricostruire il ponte.
Ovviamente non andò così, il ponte fu ricostruito quasi 10 anni dopo, sotto il patrocinio dell'UNESCO e grazie ad uno sforzo internazionale. 
Ora il ponte è al suo posto, identico alla sua versione precedente, come se nulla fosse, un simbolo resta un simbolo, soprattutto quando deve coprire ferite fresche. Almeno l'apparenza è salva.



Dalipagic a Mostar non abita più da anni, viene spesso a Venezia per raccogliere gli applausi di chi non l'ha mai dimenticato ma anche di chi all'epoca non c'era, mentre le leggende su di lui se le ricordano in pochi.

Qualche anno fa capitai per sbaglio a casa di un mio amico per pranzo, con lui c'erano delle persone che non conoscevo, tra questi un ragazzo magro e alto. Salta fuori che suo padre era l'allenatore della Reyer negli anni di Dalipagic.
Allora io inizio a raccontargli tutti gli aneddoti di cui mi ricordavo, comprese le due leggende metropolitane.

Appena finisco un sorriso gli si disegna in volto, mi dice che in merito alla sfida con gli americani non può dire nulla, ma sui tiri liberi post allenamento lui ci crede, perchè il ragazzino che gli passava la palla era lui.

A volte i miracoli accadono, almeno avesse detto "mio cugino", allora sì avrei avuto qualche dubbio, ma quel ragazzino era davvero lui. Non gli chiesi però della sciarpa rossa, pensai fosse meglio non esagerare.

Dopo anni una delle leggende della mia gioventù si è rivelata non essere tale, adesso non mi resta che cercare dei marinai americani.

3 commenti:

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  2. Sempre fantastico sei! Ma il fiume di Mostar è la Neretva. Scusa ma come sai sui fiumi sono fissato!

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  3. Grazie Teddy! In merito al fiume, Neretva è come lo chiamano in croato, in italiano è invece Narenta (http://it.wikipedia.org/wiki/Narenta)

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