venerdì 28 marzo 2014

Musica # 9 - Stay Free


Cos' years have passed and things have changed
And I move anyway I wanna go
I'll never forget the feeling I got
When I heard that you'd got home
An' I'll never forget the smile on my face
'Cos I knew where you would be
An' if you're in The Crown tonight
Have a drink on me
But go easy...step lightly...stay free


Stay Free - The Clash


 
Ho sempre avuto una specie di attrazione per gli emarginati, i diversi, quelli ai quali nessuno degnava uno sguardo, se non di disprezzo.
Non credo fosse per spirito crocerossino, ho imparato molto presto che ci si salva solamente da soli, non era nemmeno per la voglia di sentirmi superiore, perchè ho semore avuto l'autostima di un paio di superga, usate.

La mia era probabilmente semplice curiosità etnologica, volevo conoscere popoli e mondi diversi, partendo da quelli vicino a me.

C'era questo ragazzo, un paio d'anni più grande di me, che "con due gocce di eroina si addormentava il cuore" ogni volta che ci riusciva. Viveva la sua condizione di tossico con una sorprendente leggerezza, tra sistemazioni precarie, amori improbabili, lavori sottopagati e visite al SERT.
Ci frequentammo per un periodo, io gli raccontavo delle mie prime lezioni all'università, delle ragazze che incontravo, lui in un modo o in un altro finiva sempre per parlare di droga.
Mi spiegava di come prendesse le pasticche recuperate al SERT bevendo birra da quattro soldi, per aumentarne l'effetto, oppure di come a volte riuscisse a metterle da parte un po', per barattarle con qualche dose.
Capitava di trovarmelo fuori dell'università, due occhiaie nere e pallido come una pietra d'Istria (si direbbe "pallido come un lenzuolo", ma sono veneziano, rassegnamoci). Magro com'era sembrava un panda anoressico, così finivo per offrigli il pranzo.
Una volta stavamo camminando assieme, improvvisamente mutò espressione, mi chiese di andarmene mentre lui cambiava direzione. Quando lo rividi qualche giorno dopo mi spiegò che avevamo incrociato un tipo con il quale, la sera prima, aveva comprato una dose in comproprietà, una volta avuta la busta in mano però se l'era fatta tutta lui. Il tipo non l'aveva presa bene e da allora lo stava cercando per gonfiarlo di botte.

Il tempo che passavo con lui era pieno di episodi istruttivi, come quando lo incontrai con una t-shirt piena di macchie di sangue, venne a casa mia e gliene diedi una di pulita, mentre vide lo spavento nei miei occhi mi disse di non preoccuparmi, che a volte l'eroina era tagliata con sostanze che procuravano un  prurito fortissimo e lui  (che tra tutti i pregi che aveva non poteva annoverare di certo una forza di volontà adamantina) si era grattato fino a sanguinare. 
Tutto normale insomma, scemo io che mi ero preoccupato.

In realtà  poteva anche essere molto divertente, una sera uscimmo con delle tipe che avevo conosciuto a lezione (non una grande mossa, col senno di poi), e dopo aver descritto ogni singolo tatuaggio che ricopriva le sua braccia (adesso non farebbe più notizia, lo so) saltò sopra un tavolo del locale dove eravamo e, atteggiandosi da surfista, iniziò a cantare "Noi siamo i giovani, i giovani del SERT".

Dopo qualche mese iniziammo a vederci sempre di meno, forse aveva paura che provassi a salvarlo, e non voleva deludermi, o forse la sua anima inquieta non lo lasciava fermarsi, quel che mi ricordo ancora è che in tutto quel tempo non mi chiese mai un soldo, mai.

Ad un certo punto sparì del tutto, senza dirmi niente, e di lui non seppi più nulla. Pochi anni fa mi arrivò una notizia di terza mano, pareva si fosse trasferito in un'altra regione e che finalmente si fosse liberato dai suoi demoni.




Tempo fa ho letto un articolo che raccontava la storia dietro a "Stay Free", una canzone dei Clash che conoscevo appena. Scritta da Mick Jones, parla di un suo compagno di liceo, Robin Banks, come lui testa calda e ribelle, suo complice di mille bravate. I due combinarono così tanti casini che furono espulsi dalla scuola assieme, il suo amico però alla chitarra preferì la pistola, e dopo l'ennesima banca rapinata finì in carcere.

Quando torna libero, dice l'articolo, Mick Jones lo viene a sapere, i Clash sono delle star adesso, e stanno per partire alla conquista dell'America, ma lui non si è mai dimenticato dell'amico sfortunato.
Va a trovarlo a casa con la chitarra e gli canta la canzone a lui dedicata, "Stay Free", uno dei più bei regali che si possa ricevere. Purtroppo però Robin Banks non resterà "free" per molto, dopo qualche tempo una rapina a Stoccolma lo riporterà in prigione.

L'espressione sulla faccia di Mick Jones mentre canta le ultime parole di questa canzone, è pura poesia, con quel "stay free" sussurrato tra i denti.

Stranamente la musica è sempre rimasta fuori da tutte le cose di cui io e il mio amico eroinomane abbiamo parlato in quei mesi di frequentazione, non so se conoscesse o meno i Clash.
Però, da quando ho letto quell'articolo, ogni volta che che sento "Stay free" non posso fare a meno di pensare a lui, spero sia davvero libero dai suoi demoni, magari un giorno riuscitò nuovamente a bere una birra con lui.

Sperando che questa volta non faccia il surfista sul tavolo.







lunedì 24 marzo 2014

Cinema # 2 - Pee-wee's Big Adventure

Pee-wee: Aren't we gonna see the basement? 
Tina: There's no basement at the Alamo!

Pee-wee's Big Adventure



L'industria cinematografica di Hollywood ha generato illusioni che si sono trascinate anche fuori dello schermo, rendendo affascinanti luoghi  che in realtà non lo sono affatto, e che nessuno mai si sognerebbe di visitare.

Fort Alamo è un rudere di medie proporzioni, nemmeno troppo bello. Si trova a San Antonio, in Texas,  e tutti, dico tutti, lo conoscono per la leggendaria omonima battaglia e per David Crockett, che guidò l'esercito americano contro quello messicano, rimediando una delle più sonore sconfitte degli Yankee tra le mura amiche ("amiche" per così dire, visto che all'epoca il Texas era per metà territorio messicano).
Che David Crockett fosse ben diverso dall'eroe visto nei vari film a lui dedicati (interpretato da decine di attori, da John Wayne fino a Johnny Cash) poco importava, probabilmente era un impostore mezzo alcolizzato, ma io me ne stavo in coda come tutti gli altri turisti.

Vicino a me c'era una coppia di fidanzatini, più o meno della mia età, lei era vestita come fosse il 1953, con capelli neri tinti, frangetta, occhiali con montatura nera, rossetto rosso fuoco, unica nota stonata un tatuaggio che sbucava da sotto le maniche corte della camicia. Anche il ragazzo aveva un look piuttosto bizzarro, con gusto retrò ma con piercing e tatuaggi e se adesso è normale, vi assicuro che all'epoca non lo era affatto.

Dopo un po' che eravamo uno accanto all'altro iniziammo a parlare, scoprii che erano neozelandesi, infatti li capivo a fatica perchè parlavano con un accento che non avevo mai sentito prima, io gli spiegai del mio giro in bus, e quando chiesi quale sarebbe stata la loro prossima tappa, si scambiarono uno sguardo che era tutto un programma e mi dissero con orgoglio che stavano seguendo l'itinerario che Pee-wee Herman aveva coperto nel suo film.



Pee-wee's Big Adventure era un film che avevo visto anche io, si trattava del primo lungometraggio di un allora sconosciuto Tim Burton. La trama era incentrata sulle peripezie di tale Pee-wee Herman, un personaggio buffo inventato ed interpretato da Paul Reubens, al tempo protagonista di un piccolo show tutto suo sulla HBO.
Era una specie di road movie, con il buon Pee-wee costretto ad attraversare mezzi Stati Uniti alla ricerca della sua preziosissima bicicletta rossa fiammante che gli era stata rubata.
Tra i vari posti visitati c'era anche Fort Alamo, anche se onestamente non mi ricordo esattamente perché.

In breve tempo quella pellicola strampalata e nonsense diventò un cult movie, regalando notorietà a Pee-wee Herman al punto che la CBS offrì a Paul Reubens un contratto faraonico di ben 5 anni per uno show esclusivo sul loro canale.
Il suo look anni '50, con tanto di completo in stoffa Windsor grigio, papillon rosso, capelli leccati con riga in parte, assieme alla sua figura esile e asessuata, la voce nasale e le espressioni buffe, colpirono l'immaginazione dei bambini e non solo.
Le sue storie improbabili, le sue espressioni infantili, quell'aria naif, un misto tra Tin Tin, Jerry Lewis e Macario, ne fecero un'icona per la TV dei ragazzi e per chi dall'adolescenza proprio non voleva uscire.

Quei due ragazzi neozelandesi erano lo stereotipo dei suoi fan, un po' naif e un po' retrò, guardavano agli anni '50 come l'età dell'innocenza perduta, e a Pee-wee Herman come una specie di profeta.
 
Gli anni della CBS portarono un successo enorme di pubblico e di soldi, ad un certo punto si poteva trovare la sua immagine e il suo nome su decine di prodotti.
Lentamente però, un po' come il nuovo costume nero dell'Uomo Ragno aveva quasi annullato Peter Parker, anche il personaggio Pee-wee Hermann iniziò ad oscurare l'attore Paul Reubens.


Quando il contratto con la CBS finì, probabilmente per tenere sulle spine il network e per strappare una cifra ancora più alta, Paul Reubens si prese una pausa, e fu in questo periodo che capitò un evento terribile: mentre era a Sarasota, in visita ai genitori,  fu pizzicato in un cinema a luci rosse, impegnato in una "sessione" di gomito.
Forse fu l'estremo, inconscio tentativo di ribellione dell'attore contro la sua creatura, che ormai lo controllava, una specie di ""muoia Sansone e tutti i Filistei"; anche le foto segnaletiche rese pubbliche ci restituirono l'immagine di un uomo ben diverso da Pee-wee Herman, proprio a marcare ulteriormente la differenza tra l'attore e il personaggio da lui inventato.


Quando la notizia divenne pubblica, il meraviglioso mondo di Pee-wee andò in frantumi, la CBS stracciò ogni bozza di contratto, tutti i prodotti con il suo nome e associati alla sua immagine sparirono dagli scaffali, le porte di Hollywood si chiusero a doppia mandata, Paul Reubens e il suo personaggio divennero materiale radioattivo, al quale nessuno voleva più avvvicinarsi.

L'innocenza anni '50, caratteristica unica di Pee Wee Herman, si dissolse con il suo maldestro tentativo di autoerotismo.

Quando lessi la notizia il mio primo pensiero non andò alla sua carriera distrutta, nemmeno al tostissimo padre, ex-pilota di aerei nella seconda guerra mondiale e uno degli artefici della nascita dell'aviazione militare israeliana che esordì con la guerra d'indipendenza del 1948, bensì ai due tipi neozelandesi, chissà come presero la notizia, come vissero quei momenti drammatici.

Soprattutto mi chiesi se, nel prossimo viaggio negli USA, avrebbero incluso nel loro itinerario anche quel cinema a luci rosse, perchè in fondo anche i personaggi più buffi e teneri, hanno il pisellino.


mercoledì 19 marzo 2014

Sport # 1 - Yannick Noah

Prima dell'avvento delle pay TV e dei canali tematici, molti ragazzi come me aspettavano la tarda primavera per iniziare a guardare sulla RAI i grandi tornei di tennis.

L'appuntamento al quale la TV nazionale dava più risalto era logicamente quello del Foro italico di Roma, negli anni '80 però il torneo aveva perso smalto, probabilmente a causa di spettatori più abituati alle curve da stadio che non alle gradinate dei campi da tennis, o forse per l'assenza di premi sufficientemente appetibiili per le superstar del momento, che venivano contesi dai vari tornei a suon di centinaia di migliaia di dollari, davanti ai quali la liretta di quegli anni poco poteva (l'EURO qualche vantaggio l'ha portato, alla fine).

Il torneo che aspettavamo con più ansia però era il Roland Garros che, giocandosi sulla terra rossa di Parigi, aveva il giusto fascino di tutte quelle cose che vengono dall'estero.
Per noi, ormai con la testa alle vacanze estive, i pomeriggi delle calde giornate  di fine maggio si consumavano davanti alla TV, a vedere infiniti scambi da fondo campo sul quella terra rossa che finalmente potevamo vedere in tutta la sua bellezza, libera, dopo anni, dalla schiavitù della TV in bianco e nero.

Bjorn Borg si era già ritirato, ma all'epoca altri svedesi dominavano il torneo.
Il vero problema delle partite di tennis, per un palinsesto rigido come quello della RAI, era l'imprevedibilità della durata di una partita, che spesso era costretta a cambiare canale una o addirittura due volte, a volte finendo per essere miseramente tagliata prima della naturale conclusione, suscitando il disappunto e le proteste dei telespettatori.
 
Arrotini instancabili, maratoneti biondi dal rovescio a doppia mano, dispensatori di bordate da fondo campo, sulle loro giocate Giampiero Galeazzi ricamava telecronache colossal, nel difficile tentativo di salvarci e salvarsi dagli abbiocchi post pranzo.
Ipnotizzato dal suono che produceva ad ogni colpo di racchetta (e dal respiro affannoso di Bisteccone) guardavo la pallina andare da una parte all'altra del campo, e la mia mente fluttuava in pace.

Quando finiva la partita, spesso scendevo in strada con ai piedi delle meravigliose Tepa Sport scamosciate blu (le stesse di Bertolucci, il giocatore, non il regista) e una racchetta di legno bianca e rossa, copia neanche troppo somigliante di una più prestigiosa "Victor".

Con i miei compagni andavamo in un campiello vicino casa, che aveva curiosamente la  forma di un campo da tennis, con addirittura delle linee sulla pavimentazione che ripetevano in tutto e per tutto le linee di un campo vero.
Per completarne l'illusione, sistemavamo una rete (costruita da noi) esattamente a metà campo, che dovevamo rimuovere all'arrivo dei (fortunatamente) pochi passanti.

Quando i miei compagni non c'erano, mi limitavo a tirare la pallina contro il muro di un edificio allora abbandonato, ribattendo colpo su colpo.
Detta così sembra facile, ma l'edificio aveva delle finestre a pianterreno, e dove non c'erano il muro era tutt'altro che omogeneo, visto lo stato di abbandono, il tutto rendeva imprevedible la traiettoria di ritorno, con il risultato che quasi sempre uscivo sconfitto. Pure dal muro.

In quella tarda primavera guardavo il "rolangarrò" con ancora più interesse. Partita dopo partita si stava facendo largo un ragazzone francese, figlio di un camerunense e di una francese.
Yannick Noah era un gigante nero di 23 anni, con una cascata di dread in testa, giocava in modo spettacolare, nulla a che vedere con i noiosi svedesi.
Quello che però mi aveva conquistato era il polsino rosso/giallo/verde che indossava ad ogni partita, ricordando a tutti da dove veniva. Io, orfano di Bob Marley da un paio di anni, avevo trovato il mio nuovo eroe.




Noah arrivò in finale, e la vinse pure, il primo "francese" dopo 37 anni (e ad oggi l'ultimo). Nonostante il polsino dai colori sbagliati, i francesi impazzirono d'orgoglio. Jean Marie Le Pen inghiottì un rospo amaro, un antipasto, anzi un "hors d'oeuvre", di quello che dovrà mangiare alla vittoria di una multietnica nazionale francese ai Mondiali del 1998.


Molto tempo dopo il suo trionfo al Roland Garros, lessi un'intervista a Yannick Noah, nella quale diceva che quella vittoria lo mandò in crisi. Lui, figlio di un africano e di una francese, era diventato il simbolo sportivo della Francia, quella responsabilità lo schiacciò, facendolo sprofondare in una specie di depressione, che finì per limitarne la carriera, che in molti avevano pronosticato sicuramente più gloriosa.
Per tutta l'estate cercai quel polsino, invano. Lo trovai due anni dopo, mentre ero a Grenoble per una vacanza studio. Lo indossai con orgoglio molte volte, ma mai per giocare a tennis in strada con i miei amici.
Eravamo tutti cresciuti, con altre cose per la testa, stupidi abbastanza per pensare che a 16 anni certe cose non si possono fare più.

Oggi passo quasi ogni giorno davanti all'edificio che fu il compagno silenzioso dei miei pomeriggi di tennis solitario. Non è più disabitato, o meglio, è diversamente disabitato, visto che è diventato un albergo.
La facciata è restaurata, l'intonaco è perfettamente liscio, ogni singolo mattone è al suo posto.

Sei fortunato che sono troppo vecchio per giocare, perchè adesso batterti sarebbe una passeggiata, stronzo di muro.







sabato 15 marzo 2014

TV # 2 - The swimmer

Ned Merrill: Lucinda's waiting. The girls are home playing tennis. I'm swimming home. 
Shirley Abbott: Oh, God.

The Swimmer


Ero arrivato a New Orleans di mattina, dopo aver lasciato lo zaino in ostello mi ero subito perso tra le strade affollate del quartiere francese.
La città mi era piaciuta moltissimo, l'atmosfera, la gente, la strana archiettura, ma sarebbe stato dopo il tramonto che avrei visto il suo lato migliore.

Al mio ritorno in ostello feci la conoscienza con altri ospiti, 5 o 6 in tutto, decidemmo di uscire assieme dopo cena per visitare la città.
Del gruppetto mi ricordo un paio di Australiani che avevano (portento mai visto prima) un copri-lattina termico, che permetteva di tenere in mano una birra senza farla scaldare. Insomma non proprio personaggi del Circolo Pickwick, ma a New Orleans non mi sarei aspettato niente di diverso.
Avevo visitato la città alla luce del sole, ma ora, illuminata dai lampioni e dalle insegne dei negozi, sembrava totalmente diversa, con colori più forti, ancora più ricca di suoni e sguardi.
Facemmo un giro nelle strade intasate di turisti, entrando ogni tanto in qualche locale, attenti a non farci fregare (troppo).
Parlai quasi sempre con una ragazza di Los Angeles, Monica, anche lei ospite dell'ostello, scoprii che era di origini irlandesi e che stava andando a Boston in cerca di lavoro, probabilmente una delle poche persone a non fare il percorso inverso in quegli anni. Era carina e simpatica, e sola anche lei.
A differenza mia si stava spostando in macchina, una Honda color caffelatte di rara bruttezza che già avevo notato nel parcheggio dell'ostello al mio arrivo.
Al rientro in ostello, prima di darci la buonanotte, mi disse che l'indomani pomeriggio sarebbe partita, e che le avrebbe fatto piacere avermi come passeggero, diedi uno sguardo perplesso alla Honda, poi ai suoi occhi azzurri, e scelsi di rinunciare al bus per una volta.
La mia prossima meta sarebbe stata Athens, Georgia. L'avevo scelta a caso sulla mappa perchè era in direzione di Chicago, ma poi avevo scoperto che era la città degli allora quasi sconosciuti  R.E.M., un gruppo che avevo appena inizato ad ascoltare.
Monica mi avrebbe accompagnato fino alla stazione di Montgomery (Alabama), dove le nostre strade si sarebbero divise per poi, secondo i piani, ritrovarsi all'ostello di Athens.

Il viaggio fu piacevole, ci fu un unico momento di imbarazzo, cioè quando lei mi raccontò di quella volta che aveva portato la madre a vedere il papa durante la sua visita a Los Angeles, io le dissi che, dopo averlo visto sorridente dividere un balcone con Pinochet senza nemmeno accennare alle migliaia di persone che il tipo aveva massacrato, quel papa non mi piaceva affatto. 
Seguirono minuti di silenzio durante i quali ascoltammo stazioni radio a caso, a quanto pare gli Irlandesi sono molto cattolici, buono a sapersi.
La tensione svanì quando, per cena, iniziai a servire crackers che decoravo al volo con il formaggio spray comperato in un autogrill.
Dopo il mini contenitore termico per lattine, la scoperta del forte cattolicesimo degli Irlandesi, feci anche la conoscenza con il formaggio spray.  Questo viaggio si stava rivelando molto istruttivo.
Come da accordi Monica mi lasciò alla stazione di Montgomery, era notte fonda, ci salutammo sapendo che in un paio di giorni ci saremmo rivisti ad Athens.

Di notte la televisione italiana offre il suo lato migliore.
Ma così come solamente i più arditi navigatori del passato antico osavano oltrepassare le Colonne d'Ercole, nel terzo millennio sono pochi i telespettatori che hanno il coraggio di superare il canale 65 del digitale terrestre.
Oltre questo limite, si apre un mondo nuovo e inesplorato, una galassia di micro TV che vivono di vita propria, indipendentemente dal fatto che ci sia qualcuno a guardarle.

E' stata in occasione di uno di queste spedizioni notturne che mi sono imbattuto in un film incredibile, di cui non avevo mai sentito parlare: "The Swimmer".
Un film, ho scoperto dopo, girato nel 1968, con Burt Lancaster come attore principale, ancora bellissimo nonostante i cinquant'anni suonati.




La storia è leggermente surreale, come si usava nel cinema di quegli anni.
C'è questo tipo (Ned Merril interpretato da Burt Lancaster appunto) che si mette in testa di attraversare a nuoto un'intera contea per raggiungere la sua abitazione, che si trova in cima ad una collina. Ovviamente nuota dove si può, all'inizio nelle piscine di amici di lunga data, cortesi e affabili, poi è il turno delle piscine di amici più recenti, questi meno "amichevoli" e più freddi nei suoi confronti, infine per l'ultima nuotata s'immerge nella piscina comunale, stranamente popolata da persone a lui particolamente ostili.
Credo che l'idea fosse quella di rappresentare la parabola della vita di questo signore, dalla spensieratezza della gioventù (amici di vecchia data), alla durezza della vita adulta infine alla caduta in disgrazia della mezza età: la piscina comunale (e se siete mai stati in una piscina comunale, almeno questa parte di metafora risulterà chiarissima).
Quando pensi che peggio di così non gli possa andare,  la scena finale ti spezza il cuore.
Burt Lancaster è in costume, mezzo bagnato e infreddolito, bussa alla porta di casa sua, ma nessuno risponde. Il cancello del giardino è arrugginito, e il campo da tennis che s'intravede nello sfondo è coperto di foglie secche, capisci con lui che la casa è vuota e la sua famiglia non c'è più.
Se hai avuto anche un minimo la giornata storta (o se sei interista), inizi a piangere come lui, prima dei titoli di coda.

Lasciata Monica nella sua Honda, aspettai un po' di ore l'autobus che mi avrebbe portato ad Athens, Georgia. Il viaggio non durò molto, soprattutto rispetto alla media dei miei spostamenti con il Greyhound, ma a dire il vero sembrò molto, molto più lungo.

Sceso ad Athens controllai nella guida la posizione dell'ostello, con calma mi incamminai, arrivato alla fine della strada nella quale avrebbe dovuto trovarsi, dell'ostello non c'era traccia.

Tornai indietro e, nascosto tra delle erbacce, vidi il segnale che indicava l'ostello, presi la stradina e mi ritrovai davanti ad una casa di legno enorme, tipo quelle che si vedono nei film horror.
La  veranda e la sedia a dondolo annessa erano coperte di foglie secche, di tanto in tanto mosse da un debole venticello autunnale.

Raggiunsi la porta piuttosto perplesso, cercai d'aprirla ma era chiusa a chiave, da dietro il vetro sporco vidi una montagna di posta abbandonata a terra, iniziai ad avere dei sospetti, forse l'ostello era chiuso (sveglio, il ragazzo).

Girai attorno alla casa, l'accesso al giardino era bloccato da un cancello arrugginito, l'erba era cresciuta a dismisura, in fondo vidi un campo da basket chiaramente in disuso.
Il vento era aumentato e adesso creava dei mini tornado di foglie sotto ad un canestro.
Tornai indietro, mi sedetti con la testa tra le mani sui gradini della veranda, quell'ostello era l'unica possibilità che avevo per rivedere la ragazza irlandese, non avevo un piano B, era tutto finito.

Ora me ne stavo seduto nella poltrona sformata di casa mia, di notte, con l'occhio umido, a guardare il povero Burt commuoversi davanti ad un cancello arrugginito, e rivedevo il campo da basket di quel maledetto ostello. 

Almeno io, ad Athens, non ero in costume.

lunedì 10 marzo 2014

Musica # 8 - Francis Albert Sinatra & Antonio Carlos Jobim


Like a river that can't find the sea, 
that would be me without you, 
my Dindi

Dindi - Francis Albert Sinatra



A volte nella vita ti capita di incontrare persone famose: sportivi, politici, personaggi dello spettacolo.
Per una serie casuale di fattori, nella mia vita sono venuto in contatto con un certo numero di persone che, anche adesso al crepuscolo dell'epoca dei reality, si potrebbero definire "famose".

Tempo fa, mentre facevo il factotum nel ristorante italiano a Los Angeles, quasi tutti i giorni, a fine serata, c'era una sorta di terzo tempo.
A porte chiuse, in compagnia di pochi clienti VIP, il proprietario, un amico di mio padre, apriva una bottiglia di porto del 1964 (di cui conservava decine casse in cantina) e ne versava il prezioso contenuto in un decanter facendolo filtrare attraverso una garza.
Il tempo di farlo ossigenare quel che bastava e,  seduti ad un tavolo in compagnia di tre, quattro ospiti, iniziavamo a gustarlo,  tirando fino a notte fonda.
Quel porto aveva un profumo e una consistenza vellutata che non ho mai più ritrovato in nessun altro vino, se servono del vino in paradiso, deve essere per forza un porto del 1964.
Fu durante una di queste serate che conobbi un produttore musicale piuttosto famoso che, tra le altre cose, aveva lavorato con Miles Davis  e Barbra Streisand.
All'epoca era fresco del successo di "Duets" di Frank Sinatra, che proprio grazie a quel disco di duetti con ospiti illustri (Bono, Pavarotti, etc)  era ritornato nella Top Ten dopo molti anni di lontananza dalla classifiche.
Quella sera, davanti ad una bottiglia di porto vecchia di 30 anni parlammo del più e del meno, lui del suo mondo, fatto di musicisti leggendari, io del mio, molto meno leggendario.
Ciò nondimeno, riuscii ad inanellare una serie di aneddoti più o meno veri, ambientati a Venezia.
Il mio inglese arrangiato e le mie storie strampalate mi resero simpatico al tizio, al punto che in un eccesso di euforia mi promise una copia del CD di Sinatra, forse addirittura autografata. 

Tutto stava andando per il meglio, merito soprattutto del porto, quando decisi di strafare. Stavo portando a casa un risultato positivo in trasferta in un campo ostico, bastava tenere la palla lontana dalla porta e aspettare il fischio finale, e invece volli fare il fenomeno, presi sotto braccio il tipo e gli dissi: "Mi sa che dopo questo dovrai produrre un disco di duetti di Jim Morrison" alludendo, non troppo velatamente, allo stato quasi comatoso del vecchio Frank.
Il produttore, gentiluomo come era, si fece una grassa risata, ma era evidente che non l'aveva presa benissimo, il porto finì, era molto tardi e ce ne andammo tutti a dormire.
Il tipo lo rividi ancora, sempre in occasione dei terzi tempi, ma alla fine il CD non arrivò mai, né con né senza autografo.
Pazienza, me ne sono fatta una ragione da tempo e comunque nella mia personale classifica di Sinatra, "Duets" non entra nei primi 5 anzi, se ne avessi 10 di dischi, quello sarebbe undicesimo.



Al primo posto, solitario in cima, c'è "Francis Albert Sinatra & Antonio Carlos Jobim", fatto in collaborazione con Jobim, alcuni ritennero all'epoca che fosse l'estremo tentativo di Sinatra per svecchiarsi l'immagine, cercando sonorità moderne e raffinate,  in un momento storico (siamo alla fine degli anni '60) nel quale il mondo che aveva fatto da sfondo al suo periodo d'oro, era stato spazzato via dai Beatles e dalle nuove leve.

Per me il disco è semplicemente meraviglioso, un matrimonio perfetto tra la classe di Sinatra (che per l'occasione firma il disco anche con il suo secondo nome, forse per non averne uno in meno del collega brasiliano) e la poesia di Jobim.

Anche la foto in copertina è straordinaria: Sinatra è avvolto da una leggerissima nuvola di fumo,  ha poco più di cinquantanni, non è ancora totalmente imbolsito, ma appena un po' segnato da anni di Rat Pack, tiene una sigaretta in mano, con la quale sfiora un leggio che guarda con sufficienza.

Poi, se non bastasse, tiri fuori il disco ed inizi ad ascoltarlo.

C'è un video che si trova on line, dove i due fanno un mini concerto in uno studio televisivo. Mentre Jobim pizzica la chitarra, Sinatra gioca con una sigaretta, ad un certo punto l'accende ed inizia a cantare.
Non riesci ad immaginare niente di più cool, Sinatra è talmente a suo agio che sembra camminiare mentre chiunque altro al suo posto correrebbe, affannato.

Nel disco, Francis Albert Sinatra canta come se dovesse vivere per sempre, e quando ascolti "Dindi" (a mio avviso il migliore brano del disco), te ne convinci anche tu.
Per i 28 intensissimi minuti di questo disco il tempo si ferma, mentre tu ti trovi capultato negli anni '60, direttamente dentro una puntata di "Mad Men".

Perciò lo dico senza possibilità di ripensamenti, il CD di duetti  (con o senza autografo) non mi manca affatto, per quanto riguarda quel porto del 1964, quella è tutta un'altra storia.


mercoledì 5 marzo 2014

Musica # 7 - Impressioni di Settembre

A Los Angeles i mezzi pubblici li prendono i vecchi, le colf messicane e i matti, e per un certo periodo li ho presi pure io.

Diciamo che il mio mezzo di trasporto preferito era la bicicletta, che cercavo di usare il più possibile, ma a volte ci rinunciavo. Il Sunset Boulevard è una goduria se vai verso il mare, con quella discesa continua e le dolci curve, ma sappiamo che le discese sono salite all'incontrario, ed a ritornare indietro ti servono le gambe di un discreto passatore, non certo un Pantani (pulito o meno) ma qualcosa di simile si, e onestamente io quelle gambe non ce le avevo.

Perciò quel giorno me ne stavo alla fermata della spiaggia di Santa Monica in attesa del mio bus quando, probabilmente perchè non rientravo in nessuna delle categorie sopra citate, un tizio sui 40 anni mi si avvicina ed inizia parlarmi.
Ha un berretto da baseball piuttosto unto con la scritta "Life is a bitch and then you die" (versione nichilista del più famoso motto dei Beach Boys: "Life is a beach") dal quale escono dei lunghi capelli biondi, chiaramente bisognosi di shampo.
Indossa una maglietta sdrucita con la scritta "metallica", un paio di short consumati e delle Vans che avevano visto sicuramente tempi migliori, in compenso il suo sorriso mi permette di ammirarne i denti marci. Sembra la versione invecchiata, male, di Beavis.



Il tipo mi chiede da dove vengo e che ci faccio di bello a L.A., quando gli dico che sono italiano i suoi occhi si illuminano: "Italy? I know a band from Italy, I saw them here, in Santa Monica". Si ferma, ha lo sguardo di chi sta facendo la radice quadrata di 6575 a mente, dopo una decina di secondi in silenzio esclama: "Damn! I can't remember the name!". Visto come è conciato, questo suo vuoto di memoria non mi sorprende affatto.
Poi inizia  a raccontarmi di tutti i concerti che aveva visto, elenca una serie di band del passato, io continuo ad annuire, a caso, perchè ne conosco giusto un paio.
Ha le unghie delle mani sporchissime, e ogni tanto parte con degli assoli di "air guitar", improvvisamente si ferma e dice: "P.F.M.! That's their name! Do you know them?".

Certo che li conoscevo, ma i miei P.F.M. erano sicuramente diversi dai suoi.
I miei erano i tipi che un "vecchio" (nemmeno quarantenne) De Andrè aveva chiamato per dopare il suo repertorio, era la band che Faber aveva voluto ai suoi concerti per fare uscire la sua musica dalle secche del cantautorato degli anni '70, dando vita ad una collaborazione tanto improbabile quanto esplosiva.
I miei P.F.M. erano quelli che sparavano l'intro de "Il Pescatore" come fuochi d'artificio a capodanno, mentre i P.F.M che aveva visto quel tipo erano probabilmente la migliore rock band (non solo progressive) in circolazione all'epoca, una band che aveva fatto impazzire mezzo mondo con live  memorabili.

"Beavis" è così felice di aver trovato un altro fan dei P.F.M che inizia a fischiettare "Impressioni di Settembre" però, mettici che i suoi denti erano consumati dal crack, mettici pure che di certo lui non era Alessandro Alessandroni, vi assicuro che stavo ascoltando la versione più triste e patetica della storia.

Per fortuna arriva il bus ad interrompere la sua performance, faccio il gesto di farlo passare, ma il tipo mi dice "Nah, I'll catch next one" e mi saluta.

Mi siedo nei posti in fondo, quando il bus riparte vedo con la coda dell'occhio il mio nuovo "amico" trascinare un carello da supermercato con dentro una coperta, dei cartoni e qualche sacchetto di plastica.

Da appassionato frequentatore di concerti, si era trasformato in un personaggio da girone dantesco, con una legge del contrappasso crudelmente perfetta, il tipo aveva fatto così tanti viaggi artificiali, che adesso non si poteva nemmeno permettere di prendere un cazzo di bus urbano.

Life is a bitch, and then you die. I suppose.