mercoledì 23 luglio 2014

Sport # 7 - L'Inter

"Credo che il mio cane sia Interista"
"E perchè?"
"Beh, quando l'Inter pareggia se ne sta ore davanti alla finestra a fissare il vuoto, quando perde entra nella cuccia e se ne esce 2 dopo giorni"
"Scusa, ma quando l'Inter vince cosa fa?"
"Non lo so, ce l'ho solamente da 4 anni"


Certe cose ti capitano, e non sai nemmeno il perchè. Te ne stai tranquillo per i fatti tuoi e un gabbiano (non un piccione) ti caga in testa, al volo.

Altre cose sono ereditarie, quando te ne accorgi è già troppo tardi.
Tipo la squadra del cuore.
Mio padre era Interista e di conseguenza lo sono diventato anche io, per quanto col tempo ho capito che non sarebbe mai potuto andare diversamente. 

Alla fine, ti abitui a vincere quasi tutti gli scudetti ad Agosto, e mai nessuno a Maggio; ti stupisci quando dopo l'Inverno passato a cercare di appassionarti al cricket o alla pelota basca, ti accorgi che in panchina c'è lo stesso allenatore che avevi lasciato ad inizio campionato; ti sembra logico scoprire che ci sono voluti 27 terzini sinistri in meno di 10 anni (incluso un tale Roberto Carlos) prima di arrivare a Vratilav Gresko.

Pure nel momento di gloria più alto degli ultimi 40 anni, quando a Madrid l'Inter finalmente vince la Coppa dei Campioni (non chiamiamola "Champion's"), non resisti, riesci anche in quel momento a rovinarti la serata, perché ovviamente il tuo allenatore decide di lasciare la squadra 15 minuti dopo aver baciato la coppa.

Ecco, in quei momenti capisci che non sei Interista perché la tua squadra è l'Inter, ma che la tua squadra è l'Inter perché sei Interista

Inoltre, inutile negarlo, essere Interista è una grande palestra di vita.
Dopo che hai vissuto il 5 maggio ascoltando "Tutto il calcio minuto per minuto" fino al quarto goal della Lazio, cos'altro ti può spaventare nella vita? Una malattia? Un amore che finisce? 
Ti ritrovi con gli anticorpi della tristezza grossi come pastori maremmani (intesi come cani), e tutto si ridimensiona.

Non so perchè mio padre fosse Interista, forse lo era suo padre, che pure morì pochi anni dopo la sua nascita, non gliel'ho mai chiesto, e adesso è tardi.  Ma sarebbe stato come cercare di capire perchè il cielo è azzurro, certo c'è una spiegazione scientifica, ma saperlo cambia qualcosa?

Mio padre mi raccontò che da bambino, negli anni '30, vide Giuseppe Meazza alla stazione di Venezia, l'incontro fu così tanto emozionante che si pisciò letteralmente addosso.
Vedere i propri idoli in quegli anni doveva essere un'esperienza mistica, le partite venivaro radio trasmesse, non c'era nemmeno l'album Panini, pochi anche i resoconti fotografici. L'unico modo per vederli era quello di assistere ad una partita dal vivo, oppure incrociarli per strada.

Ad un certo punto, quando avevo 9 anni, mio padre decise che voleva farmi vivere l'emozione di incontrare da vicino i calciatori dell'Inter, chiamò un suo amico i cui figli all'epoca giocavano in serie A e si fece dire in quale albergo di Bologna di solito la squadra ospite alloggiasse, per la cronaca il Royal Hotel Carlton.

Repertorio # 15 - Check in card Royal Hotel Carlton

Così prenotò una stanza per il sabato successivo, la sera prima di Bologna-Inter.

Dopo una notte (quasi insonne per me) in quella camera d'albergo, domenica mattina ci alzammo e facemmo colazione. Con me avevo una foto, in bianco e nero, formato A4,  che mi ritraeva vestito da Interista, il piano era quello di aggirarsi in sala colazione e farsi lasciare sul retro gli autografi dai vari calciatori.
Io li conoscevo abbastanza, ma il fatto che fossero in scala 1:1 e in borghese mi confondeva un po', così mio padre si avvicinò ad un bel giovanotto che stava chiaccherando con due stangone bionde, gli chiese se fosse un calciatore dell'Inter, il trio si fece una bella risata e mio padre capì che di certo non avevano passato la notte a parlare di schemi e fuorigioco.

Poi riconobbe un vero giocatore dell'Inter, tale Merlo, che se ne stava in disparte tutto solo, il tipo fu molto disponibile, mi fece l'autografo e poi parlò  con mio padre per 10 minuti, lamentandosi del Mister, dei pochi minuti giocati, e altro ancora. Il calciatore successivo si chiamava Pavone, giuro che è vero, non facciamo battute, anche perchè il problema è che l'Inter non è stata una squadra di uccelli solamente quell'anno.

Via via riuscii ad ottenere l'autografo di tutti i calciatori, da Nazzareno Canuti a Graziano Bini, da Alessandro "Il Farmacista" Scanziani all'elegantissimo Giacinto Facchetti, infine arrivò pure l'autografo del mister, Eugenio "Sergente di Ferro" Bersellini.  
L'unico che mi sfuggì fu ovviamente anche quello al quale ci tenevo di più (quando si dice essere interisti), infatti per qualche misterioso motivo Ivano Bordon da Marghera, l'eterno vice di Dino Zoff, saltò la colazione lasciando uno spazio vuoto sul retro della mia fotografia.


Formazione Internazionale dall'album Panini. Campionato 1977-78

Fu una mattina memorabile, e il pomeriggio doveva ancora arrivare.

Il mio ingresso al Dall'Ara, lo stadio di Bologna, è un'immagine che mi porterò fino alla fine dei miei giorni, un campo gigantesco e delle tribune infinite stracolme di persone, pensai seriamente ci fossero almeno 250.000 persone, ma credo fossero in realtà di meno.

Dopo pochi minuti, con un plastico volo, l'altro mio idolo Interista, Carletto Muraro di Gazzo, Padova, fece un gol capolavoro di testa, sorprendentemente salutato da un boato gigantesco.

A fine del primo tempo il Bologna pareggiò, poco male.

Durante la ripresa la vescica mi tradì, e costrinsi mio padre a portarmi  in bagno, mentre finalmente facevo i miei bisogni un boato simile a quello che aveva accompagnato il gol di Muraro mi regalò un sorriso.

Appena usciti dal ventre del Dall'Ara cercai il mega tabellone e vidi il risultato, 2-1 che non cambiò più fino alla fine, ovviamente in favore del Bologna.

Sono Interista, che ve lo dico a fare.


Musica # 17 - Napoli Centrale

«James, sei felice?» 

«No; rifatemi questa domanda il giorno in cui Miles Davis sarà in testa alla hit parade»

James Senese 


Per motivi troppo lunghi da spiegare ho fatto il servizio militare neanche ventenne, come si usava negli anni '60.

Di norma, dopo 1 mese passato in una caserma in centro Italia per il CAR (centro addestramento reclute),  venivi mandato nella tua destinazione definitiva degli ultimi 11 mesi, di solito in una ridente ghost town del Friuli.

Di norma.

Io invece passai il primo mese a Salerno, in una caserma senza acqua calda, "per fortuna", appena fuori dal portone, c'era un barbiere che offriva questo servizio per un paio di mille lire, che probabilmente spartiva ogni settimana con il manutentore della Caserma. Rifiutai sempre quel compromesso, un mese senza docce calde in fin dei conti era una passeggiata dopo intere Estati di docce gelate in Zona A (per i non veneziani, lo stabilimento balneare del Lido più accessibile all'epoca) .
Finito il CAR  avrei dovuto spostarmi a Nord, e infatti arrivai a Napoli, che per l'appunto si trova a nord di Salerno.

La caserma si trovava per l'esattezza a San Giorgio a Cremano, comune della periferia orientale di Napoli, che ha dato i natali a Massimo Troisi  e soprattutto ad Alighiero Noschese.

Alighiero Noschese nei panni del giornalista Mario Pastore

Dei tre mesi che ci passai scriverò un'altra volta (forse), adesso voglio raccontarvi di qualcos’altro.

In caserma c'erano ovviamente anche ragazzi delle zone vicine, alcuni proprio di Napoli, perciò quando il Sabato o la Domenica venivano assegnati i servizi,  per lasciare andare a casa chi poteva, spesso i "nordisti" si sacrificavano al posto loro.

Più di una volta salvai il pranzo domenicale ad uno di questi ragazzi, in un paio di casi alla stessa persona, che gonfio di riconoscenza mi promise una cena  a casa sua.

I tre mesi a Napoli stavano quasi finendo, quando il ragazzo in questione mi disse che, se non avevo altri piani, avrei potuto cenare a casa sua quella sera.

Ci venne a prendere un suo fratello con una FIAT non proprio fresca di salone, e ci portò a velocità da rally (saltando ovviamente tutti i semafori) sotto il palazzone dove abitava, a Secondigliano.

Il mio commilitone si chiamava Gennaro Esposito, ed era un bignami di luoghi comuni, a partire dal nome, perchè chiamarsi Gennaro Esposito ed essere napoletano è come chiamarsi Dumbo e fare l'elefante.
Il tipo era chiaramente in sovrappeso, aveva una flemma disarmante, parlava Italiano con un fortissimo accento Napoletano, o forse sarebbe meglio dire che parlava Napoletano con un lieve accento Italiano. Cercava di imboscarsi tutto il giorno. Non so se nel portafoglio avesse il santino di San Gennaro, ma onestamente non mi sarei aspettato niente di diverso.
Ma appunto, seguendo tutti gli stereotipi del "napoletano", Gennaro era simpaticissimo,  e ogni volta che mi chiedeva un piacere non sapevo dirgli di no. Perciò, spesso e volentieri, finivo per fare i suoi turni.

Gennaro abitava in uno di quei condomini giganteschi che avevano fatto la fortuna dei palazzinari negli anni '60.
Salii a casa sua con ancora il rosso dei semafori negli occhi, la sala da pranzo dove ci aspettava la sua famiglia, nonno compreso, non era un esempio di sobrietà. Alle mie spalle, da una TV grossa come un baule, usciva il TG 1 ad un volume da stadio, dopo qualche minuto fortunatamente qualcuno pensò bene di spegnerla.

La madre di Gennaro mi portò un piatto di spaghetti al pomodoro della dimensione di un pallone da basket.
Mi chiese se mia madre fosse preoccupata per me, io le dissi che purtroppo era morta due anni prima,  lei si rabbui per un attimo e poi mi disse qualcosa tipo "Tua mamma è assieme alla Maronna, e pensa sempre a te" io avrei voluto  spiegarle delle difficoltà di comunicazione che avevo con il Padre Eterno & C, dell'imbarazzante malinteso di un paio di anni prima alla Chiesa Dei Miracoli, ma davanti a quel piatto fumante avrei confessato anche di essere il cassiere della banda della Magliana, perciò mi limitai ad annuire silenzioso.

La serata passò liscia, ma fu al momento di andarmene che vidi "quella cosa" per la prima volta. Molti me ne avevano parlato, ma sembrava una specie di leggenda metropolitana, Big Foot o cose del genere, invece ebbi la prova della sua esistenza.
Ferma, orizzontale, sopra la gigantesca TV,  scorsi una gondola di plastica, ebbi un attimo di esitazione, che per fortuna nessuno colse, e me ne tornai in caserma, sempre nella FIAT scassata, con quell'immagine impressa nella mente.

Dopo quella sera io e Gennaro tornammo ad  ignorarci con rispetto, ogni tanto mi portava i saluti della madre, che ricambiavo.

Finiti i tre mesi fui mandato al Nord, per la precisione a Portogruaro, per l'occasione simpaticamente ribatezzata Mortogruaro, non vidi più Gennaro, credo rimase in Campania.

Anni dopo, a casa di un amico, tra le decine dei suoi LP, ne trovai uno con un titolo curioso: "Napoli Centrale".

Mi disse: "Tu hai fatto il militare a Napoli, giusto? Allora dovresti ascoltarlo" e, dopo averlo estratto con cura dalla busta, lo mise sul piatto.

Copertina del disco d'esordio di "Napoli Centrale", 1975

La copertina è già un capolavoro, una foto rubata di un gruppetto di persone, quattro adulti e due bambini, presi di spalle mentre camminano su di una strada di campagna desolante. 
Ma la è la prima canzone che spacca, per davvero, il mio amico alza il volume ad un livello quasi insostenibile, Mark Harris (collaboratore poi di De Andrè) suona le tastiere come se avesse il Fuoco di San Antonio, la batteria di Franco del Prete, coautore delle canzoni, sembra colpita da una pioggia di meteoriti, mentre James Senese alterna il sax alla sua voce ruvida.
Il testo è tutto un programma, immerso negli anni '70, la campagna descritta è ben lontana da quella immaginata dall'accademia dell'Arcadia a fine '600, e forse lo è ancora di più dalla campagna a chilometro zero di questi anni.


Campagna, campagna
comme è bella 'a campagna
ma è cchiù bella pe' 'o padrone
ca se enghie 'e sacche d'oro
e 'a padrona sua signora
ca si 'ngrassa sempre cchiù
ma chi zappa chesta terra
pe' nu muorz' 'e pane niro
ca 'a campagna si ritrova
d'acqua strutt' e culo rutto

Campagna, campagna
comme è bella 'a campagna




James Senese, con quel nome che sembra inventato, è un gigante che doma la sua rabbia attraverso il sax, e ci regala un disco breve ed intenso, che come si legge su Wikipedia "ha i colori tipici della napoletanità più marcata e tali da creare un mix di Jazz-Rock-Prog unico nel panorama della musica italiana degli anni settanta", non ho idea di cosa voglia dire, ma vi assicuro che anche adesso, quando salta fuori dall'ascolto casuale sul mio iPod, mi fermo, inizio  a battere il tempo con la gamba mentre i pantaloni diventano a zampa d'elefante e la chioma afro di James mi cresce in testa.

E poi mi viene in mente San Giorgio a Cremano, Secondigliano e il buon Gennaro.

Ogni tanto ho pensato di rintracciarlo, magari attraverso FaceBook, ma avete presente quanti cazzo di Gennaro Esposito ci sono? Io ho provato a contarli, ma mi sono addormentato sulla tastiera del mio Mac.

Non che avrei molto da dirgli, però vorrei sapere adesso, con le TV a schermo piatto, che fine ha fatto la gondola di plastica.






mercoledì 9 luglio 2014

Sport # 5 - Miruts Yifter

"Men may steal my chickens; 
men may steal my sheep. 
But no man can steal my age."

Miruts Yifter


Prima dell'invasione di massa degli zainetti Invicta, poi soppiantati da quelli della Eastpack, ognuno andava a scuola con borse più anonime, sicuramente più piccole. Non mi ricordo proprio di aver mai portato pesi paragonabili a quelli che portano i ragazzini adesso, quando al mattino li vedi sfilare come un piccolo esercito di sherpa, ancorati al terreno da zaini pieni di libri che sembrano scritti su lastre di piombo.

Ognuno ha la "sua" cartella, alle Elementari e in parte anche alle Medie, gli zainetti di adesso sono "brandizzati" con i personaggi delle trasmissioni TV preferite, ai miei tempi non si usavano, ma ammetto che se ci fosse stato uno zaino di "Furia" o di "Spazio 1999" sicuramente l'avrei voluto (ottenerlo però sarebbe stata tutta un'altra storia).

Alle Medie iniziai ad usare un tascapane verde militare, come era di moda all'epoca, e come tutti i ragazzini (anche quelli di oggi) iniziai a personalizzarlo con disegni e scrivendoci il nome dei miei idoli (Bob Marley su tutti).

Le Olimpiadi di Mosca, le prime delle quali ho un discreto ricordo, erano appena terminate, come molti dei miei coetanei avevo passato lunghi pomeriggi a guardare le gare trasmesse in TV, a partire dalla Sovietica cerimonia di inaugurazione.
Per la seconda volta nella storia delle Olimpiadi moderne un boicottaggio aveva ridotto il numero delle nazioni partecipanti, 4 anni prima, a Montreal, a restare a casa furono gli stati Africani, per protestare contro la presenza del Sud Africa, nel 1980 il boicottaggio fu opera degli USA e dei suoi alleati indignati di fronte all'invasione dell'Afganistan da parte dell' Unione Sovietica, che ricambiò il favore 4 anni dopo snobbando le Olimpiadi di Los Angeles (non mi ricordo il perchè, ammesso ci fosse davvero un motivo per il boicottaggio).

Stando agli equlibri geopolitici di allora, l'Italia a Mosca non avrebbe dovuto esserci, ma il popolo che ha inventato il Purgatorio se ne uscì con un colpo di genio: a partecipare alle Olimpiadi di Mosca non sarebbe stata l'Italia, bensì il Comitato Olimpico Nazionale Italiano.
La nazionale Italiana perciò finì per sfilare alla cerimonia d'apertura dietro ad un cartello che diceva per brevità "CONI", con a fianco la traduzione in Russo "kohи", cioè cavalli. Iniziare subito con una figura di merda, giusto per non farsi mancare nulla.

Guardai quasi tutto quello che la RAI trasmise, e all'ennesima gara di atletica, la finale dei 10.000 metri, rimasi fulminato da un omino piccolo, pelato e con i baffi, che divenne subito il mio nuovo eroe, Miruts Yifter (aka Yifter the Shifter), il quale ovviamente di li a poco finì sulla mia cartella.


Un "giovane" Miruts Yifter

Il fatto poi che Miruts Yifter fosse Etiope, come Hailé Selassié, per me devoto di Bob Marley, era un un segno inconfutabile dell'eccezionalità di quell'atleta.
Lo vidi vincere prima i 10.000 e poi i 5.000 metri nello stesso modo: sempre nelle retrovie all'inizio (addirittura in coda al gruppo nei primi giri), poi terzo o quarto per gran parte della gara e infine, negli ultimi 300 metri, protagonista di uno scatto portentoso, che tutte due le volte pietrificò le gambe degli avversari.
 
All'epoca non sapevo molto di lui, solamente il nome e quello che avevo visto dal vivo in TV, scoprii molto più tardi una serie di aneddoti che in alcuni casi sembrano più leggende metropolitane.

Tipo quello che raccontava come nel 1971, durante un meeting negli USA, probabilmente perchè poco avezzo ai numeri arabi, o forse perchè semplicemente in pallone, fece il suo solito scatto killer, realizzando che si trattava del penultimo e non dell'ultimo giro solamente quando i suoi avversari continuarono a correre mentre lui si fermava per festeggiare.

Di sicuro nel 1972, alle tristemente note Olimpiadi di Monaco, dopo aver vinto la medaglia di bronzo sui 10.000 non si presentò alla partenza dei 5.000. Il motivo non fu mai chiarito, forse si era confuso con gli orari, molto più probabilmente, con quella faccia che si ritrovava, fu bloccato dalla polizia, e visto che parlava solamente l'Amharico e nessuna parola di Inglese non riuscì a chiarire il malinteso in tempo.

Ma la storia più bizzarra riguarda la sua sua età, che resta un mistero, anche perchè lui stesso si è sempre rifiutato di chiarire, dicendo più volte che "nessuno mi può rubare l'età".
Ufficialmente sarebbe nato nel 1944, anche se alcuni fonti indicano come più probabile 1938, se questo fosse vero diventerebbe il più vecchio vincitore di una medaglia Olimpica di Atletica di sempre (non che vincere a i 10.000 e i 5.000 a 36 anni sia roba di poco conto).
 
Miruts a Mosca mentre se ne va senza salutare

Ma tutte queste cose all'epoca non le sapevo, mi bastava andare in giro con un tascapane sdrucito, tatuato con disegni e nomi, tra i quali, probabilmente unico teenager dell'emisfero Boreale ad averlo fatto, avevo incastrato il cognome e nome di questo piccolo Etiope.

A distanza di anni non mi ricordo il vero motivo di quella scelta, forse, come diceva mia figlia da bambina, volevo essere "uguale ma diverso", avere una borsa come tutti gli altri, ma a modo mio distinguermi.
Oppure forse il suo modo di correre mi sembrava un esempio da seguire anche nella vita. Partire tranquilli, senza troppo sgomitare, dopo un po' mettersi davanti, tra i primi ma nascosto, e infine quando arriva il momento giusto staccare tutti senza nemmeno salutare, e vincere.

Il problema è che ormai sono 45 anni che corro, spesso mi sono trovato in fondo al gruppo, a volte davanti, ma ancora non ho capito come staccare tutti e andare a vincere.

Eppure i numeri arabi li conosco.







mercoledì 2 luglio 2014

Cinema # 4 - Soul Man

Mark: Look, i'm really not that good! 
Coach: Well, have you played before? 
Mark: Yeah, like on the playground.

"Soul Man" (1986) 



"Soul Man" è un film di metà anni ottanta, una commedia politically scorrect senza però essere troppo feroce, anzi a vederlo adesso sembra piuttosto innocuo.
La trama è semplice, Mark è un rampollo bianco che vuole entrare ad Harvard, il padre però decide di tagliargli gli alimenti, il ragazzo (interpretato da C. Thomas Howell, all'epoca giovane promessa del cinema americano) scopre che la prestigiosa università concede ogni anno una borsa di studio per le minoranze di colore, così decide di far finta di essere nero. Prende pastiglie abbronzanti, si cotona i capelli, cambia modo di parlare. Ovviamente inizia a subire tutta una serie di stereotipi sugli afro americani, tipo viene scelto per giocare a basket (per scoprire che è un brocco) oppure gli fanno suonare jazz, insomma cose del genere.
C. Thomas Howell e Rae Dawn Chong

Il ragazzo però non è il solo a correre per la borsa di studio, "contro" di lui c'è una dolce ragazza mulatta (Rae Dawn Chong) che lavora part time e avrebbe tutto il diritto di vincere la borsa di studio, invece il Consiglio sceglie Mark. Nel frattempo però tra i due scoppia l'amore, e il finto "afro-americano" ammette di essere bianco e dichiara il suo amore alla bella Rae Dawn (oltre a darle i soldi della borsa di studio).

Un happy end che fa tutti felici e che rese il film un discreto successo ai botteghini.

Quando frequentavo le scuole superiori, la professoressa d'Inglese, per incentivare l'uso di quella lingua, ci propose dei "Pen Friends", cioè la possibilità di contattare delle persone sconosciute attraverso delle lettere (vere, quelle di carta), qualcosa che adesso, al tempo dei social, sembra medioevo.

Per non smentirmi scelsi come "Pen Friend" una ragazza Giamaicana. Ci scrivemmo per anni, io sempre da Venezia, lei inizialmente da Saint Ann, Jamaica, poi da Washington dove aveva raggiunto la madre e infine da Chicago, dove abitava la sorella.

Fu anche per quello che inclusi questa città nel mio itinerario, così, il giorno dopo aver visto il monumento di Picasso, mi recai alla stazione centrale, snodo principale della metropolitana di Chicago. Chiesi al bigliettaio la linea da prendere per andare a Calumet City, la zona dove Eunel, questo era il nome della ragazza Giamaicana, abitava. 

Per chi non la conoscesse, Calumet City è un quartiere abbastanza famoso di Chicago, nel film "The Blues Brothers" è proprio li che si trova il negozio di strumenti musicali di Ray Charles, ed è anche uno dei quartieri più "neri" degli USA, per trovarne di simili devi andare a Brazzaville, nella Repubblica del Congo. 

Ray Charles tra i due fratelli Blues

Il tipo mi guardò strano, sembrava di origini europee, probabilmente irlandesi, mi chiese se fossi davvero sicuro di voler andare proprio lì. Gli risposi che in quel quartiere abitava una mia amica, lui mi disse che forse non era il caso di andarci, non da solo almeno.

La gente in coda intanto iniziava a lamentarsi, così feci il gesto del "time out" al bigliettaio e cercai il telefono più vicino, ma Eunel non rispose.
Abbandonai l'idea di andarci quel giorno, ogni tanto, quando trovavo una cabina provavo a chiamarla, ma fu solamente verso sera che riuscii a parlarci, ci accordammo per vederci il giorno dopo.

L'indomani nel primo pomeriggio mi recai di nuovo alla fermata della Metro, mi misi in coda allo sportello e arrivato il mio turno chiesi un biglietto per Calumet City. L'impiegato alzò lo sguardo ed esclamò "You, again!". "Of course" risposi e aggiunsi che questa volta non mi avrebbe fatto cambiare idea.

Salii nel vagone della metropolitana con un sorriso, pensai che fosse simpatico che il bigliettaio di una delle più trafficate stazioni del mondo si ricordasse di me a 24 ore di distanza. Poi mi si gelò il sangue, e realizzai che non si trattava di una bella notizia, non credo che il tipo avesse una memoria fenomenale, semplicemente Calumet City non era una delle mete preferite dai turisti bianchi e forse ero stato l'unico ad avergli chiesto un biglietto per quella destinazione negli ultimi mesi.

In ogni caso mi ero preparato ad eventuali momenti di tensione a sfondo razziale,  avevo il polsino di Yannick Noah che sbucava dalla manica del giubbotto e sotto un paio di camice indossavo una t-shirt con l'immagine dell'Africa e un pugno che usciva dal Sud Africa, sanguinante nell'azione di rompere una catena, il tutto completato da una frase di Gil Scott-Heron che diceva "I hate it when the blood starts flowin', But I'm glad to see resistance growin'", come se a quattro gangster neri strafatti di crack importasse qualcosa dell'Apartheid.

Mano a mano che il treno si avvicinava a Calumet City i passeggeri cambiavano, ad un paio di fermate dalla destinazione mi guardai in giro, ero l'unico bianco del vagone, ma ormai ero arrivato.

Trovai la casa della mia "Pen Friend" con una certa facilità, bussai alla porta e uscì un ragazzo poco più grande di me, le chiesi di Eunel, lui mi guardò strano e disse qualcosa tipo "Doyo min Iunil?",  il tipo parlava con un fortissimo accento Giamaicano, sembrava il DJ Scotty della canzone "Draw your brakes".

Io non capivo lui, e lui non capiva me. Così tirai fuori una lettera che Eunel mi aveva scritto, allora lui esclamò: "Mi see men, yoluking foh Iunil", e girandosi verso l'intero ulrò "Iunil, com ovah!".

Eunel, anzi, Iunil, arrivò alla porta, diede un'occhiataccia al tipo (che scoprii dopo essere suo cognato) e mi regalò uno splendido sorriso, invitandomi ad entrare.

Arrivai in salotto giusto in tempo per sentire la musica dei titoli di coda di "Soul Man", seduti in divano davanti alla TV c'erano un paio di persone, e sdraiato a terra un bambino di 5 o 6 anni, il figlio della sorella, con un'inquietante somiglianza con Arnold.

L'imbarazzo era tridimensionale, probabilmente ero il primo caucasico ad entrare in quel soggiorno, Eunel intuì l'empasse e mi invitò a salire nella sua stanza, nemmeno il tempo di illudersi che chiamò a se, prendendolo per mano, il nipotino.
La stanza da letto era una delle più kitch che avessi mai visto, copriletto ghepardato, peluche ovunque, sue foto appese al muro con effetto flou anni '70. Ma non importava, mi bastava vederla in carne ed ossa (molta più carne ora che ci ripenso), parlammo del più e del meno, di quello che avevo fatto a Los Angeles, le cose che avevo visto durante il mio viaggio in autobus. Per tutto il tempo il bambino mi guardò con gli occhi sgranati e la bocca aperta.

Essendo Ottobre avanzato le giornate erano molto corte, infatti fuori era già buio, decisi che era arrivato il tempo di prendere il treno di ritorno.

Eunel mi accompagnò alla porta, sempre seguita dalla versione Giamaicana di Arnold, poi uscì sui gradini con me, lanciai uno sguardo piuttosto eloquente al nanetto che pensò bene di fermarsi sulla soglia della porta.

Era buio, freddo, sapevamo che probabilmente non ci saremmo mai più rivisti, ci scambiammo un lungo bacio. Quando le nostre labbra si staccarono mi accorsi che "Arnold" mi stava fissando, di nuovo. Poi per la prima e ultima volta sentii la sua voce quando esclamò:

"You are not a white boy, you are Soul man!"

Sorrisi, avrei voluto spiegargli un paio di cose, ma quell'età c'è poco da spiegare, poi si sa, come una volta lessi scritto su un muro "solamente i matti e i bambini dicono la verità, i matti li mandiamo in manicomio e i bambini a scuola".

In ogni caso, e per fortuna, era troppo buio per una sfida a basket.