sabato 17 gennaio 2015

Musica # 29 - Lessons in love

All the homes that we were building 
We never lived in 
Could be better, should be better 
Lessons in love




Lessons in love - Level 42


Non sono mai stato un animale da concerto, di solito la pigrizia ha sempre avuto la meglio su di me, e poi ho sempre pensato che vedere una band dal vivo, dividere il proprio cantante preferito con centinaia, migliaia di altre persone era un gesto di generosità troppo grande.
Senza contare che  sentire il pezzo che ami alla follia massacrato da una versione ignobile di karaoke può essere un'esperienza destabilizzante.
Certo, qualcosina qua e la mi e capitato di vedere, un "Ray Charles and his orchestra" una sera nebbiosa d'inverno nelle campagne vicentine, Miles Davis (per lo più le sue spalle) al teatro la Fenice, prima dell'ultimo spaventoso incendio, un ultraterreno Anthony (and the Johnsons) nel meraviglioso teatro Romano di Verona.

Così quando arrivai a Los Angeles per la prima volta la mia priorità non fu quella di cercare i club o i teatri dove vedere concerti che sicuramente quella città poteva offrire, semplicemente mi limitai a girare con la bicicletta in cerca di soggetti per la mia Yashica fx-3, anche se la preoccupazione maggiore mentre pedalavo tra le soleggiate strade di Santa Monica e di Brentwood era quella di evitare le macchine e conservare un po' di fiato per le salite.

Mi sarebbe piaciuto vedere i Lakers in azione, quello si, ma mio zio aveva agganci solamente per i Raiders, una delle due squadre di football che all'epoca giocavano a Los Angeles. Perciò riuscii a vedere 3 interminabili partite di football, nell'imponente Coliseum Stadium, vi assicuro però che a parte le cheerleaders, scosciate ma lontanissime, il football è di granlunga più divertente visto in TV.

In quei 5 mesi, mio zio riuscì a scroccare anche i biglietti per un paio di concerti, il primo, al quale andammo assieme, era quello di Joe Cocker, al tempo fresco di una tournée fatta in Italia assieme a Zucchero.

Grazie alle conoscenze di mio zio (ed ad una cassa di Porto) dopo il concerto andammo nel back stage, dove scambiai 2 chiacchiere con un gigantesco, nel senso di altezza, Joe Cocker, che si sorprese del fatto che non l'avessi visto in Italia (minchia, cantavi con Zucchero, mica con Bob Marley), comunque fu molto cordiale e simpatico (e ubriaco).

L'altro aggancio di mio zio mi permise di andare al "The fabulous Forum", casa madre dei miei amati Lakers, per assistere ad un doppio concerto.

La stella della serata era Tina Turner, all'epoca al culmine della sua seconda vita artistica. Per quelli della mia generazione Tina Turner era una pantera quarantenne con minigonne e tacchi, che cantava con una carica sessuale che avrebbe arrapato anche Formigoni. Il concerto fu esattamente così, con Tina che si dimenava sul palco mandando in estasi tutto il pubblico, donne e bambini compresi. 

Ecco, il pubblico. Se gran parte era lì per la "seconda" Tina Turner, essendo a Los Angeles, molti erano anche i fan della prima ora, quelli che avevano conosciuto e amato la Turner quando ancora faceva parte del duo soul "Ike and Tina Turner", composto da lei (giovanissima) e dal marito. Si scoprì poi che dietro a quel duo si nascondeva una storia di violenza e soprusi da parte del marito, ma questa è un'altra storia, ciò nonostante all'epoca riuscirono a sfornare decine di hits.

I fan della prima ora erano uno spettacolo nello spettacolo, tutti di colore, tutti over 50, vestiti come in una puntata dei Jefferson.
Il tipo davanti a me sembrava persino finto, chiuso in uno strettissimo tre pezzi di velluto marrone, con i colletti della camicia bianca così lunghi e a punta che adesso non passerebbero un controllo all'aeroporto, ma il particolare più inquietante era la chioma, lunghi capelli neri domati a fatica da chili di brillantina, evidentemente usata per anni, perchè ogni suo balzo i capelli sulla nuca si alzavano, facendo apparire una striscia scura e unta lungo tutto il colletto della giacca.

Il concerto di Tina Turner fu un tripudio di sensualità e pop soul anni '80, ma fui impressionato dal gruppo spalla, che aprì la serata in un modo che non mi scorderò mai.


Un giovanissimo Mark King

Buio totale sul palco, buio totale sugli spalti, poi all'improvviso un lampo rosso, come una spada jedi, però quasi orizzontale, quando partono le prime inequivocabili note tutti si accorgono che quella spada laser è in realtà il bastone del basso, illuminato da una striscia di led rossi, e dietro quel basso c'è Mark King che che "slappa" sulle corde con il pollice, mentre tiene lo strumento quasi sotto il mento (non proprio come lo suonava Paul Simonon dei Clash).
Parte così "Lessons in love" il più grande successo dei Level 42, e con lui parte tutto il palazzetto, che salta e canta, me compreso. 
Che ve lo dico a fare, sono gli anni '80 e quella canzone letteralmente spacca, quel giro di basso poi avrebbe fatto battere il piede a ritmo anche ad Andreotti, pure adesso che è (forse) morto.

Il testo è quello che è, parla di un amore finito, di sogni costruiti che non saranno mai vissuti, insomma, non proprio quello che ci si aspetterebbe dal ritmo allegro di questo pezzo.
Dopo quella hit i Level 42 produssero un altro pezzo ascoltabile,  "Running in the family" che assieme al precedente "Something about you" rappresenta l'esempio del loro sound, fortemente radicato negli anni '80, poi praticamente il nulla fino allo scioglimento della band, con successiva e prevedibile  reunion/nostalgia che dura fino ad oggi, esclusivamente con esibizioni live in posti sempre più piccoli.

Relegato a pulire calamari e aglio, incastrato tra l'ultimo messicano della catena di comando e il frigorifero del ristorante di mio zio, quelle furono le mie uniche "Lessons in love" del mio soggiorno Californiano, mentre di "Lessons of life" ne ricevetti di continuo, anche su base giornaliera.

Un pomeriggio, mentre stavo sistemando il vino nel bar del ristorante, notai che l’ora che segnava l’orologio sulla parete alle mie spalle era sbagliata, infatti era 5 minuti avanti rispetto a quello che stava indossando mio zio, sedutomi di fronte, tre etti di Rolex d’oro farcito di diamanti. Presi una cassa di un Sassicaia e ci salii sopra per sistemare le lancette dell’orologio. 
“Che cazzo fai?” mi apostrofò con i suoi modi garbati mio zio, quando gli fu evidente il motivo di quell’operazione mi disse di lasciar perdere, che era il suo Rolex ad essere sbagliato. Non potevo credere alle mie orecchie, dopo mesi di lezioni di vita avevo l’occasione per rifarmi, anche mio zio sbagliava allora, Fonzie non era immune dall’errore, mr perfezione aveva un orologio che costava come un fuoristrada e nemmeno funzionava troppo bene. Stavo giocando contro i Lakers da solo, ormai erano sul 140 a 0 ma dopo tanto penare potevo segnare un punto anche io. Avevo stoppato Kareem Abdul Jabbar, superato in velocità James Worthy e bevuto con una finta Kurt Rambis (ok, sul 140 a 0 potevano anche giocare i panchinari). 


Da sinistra, Robert "The Chief" Parish, Larry Bird, Earvin "Magic" Johnson, Kurt Rambis e Lew Alcindor aka Kareem Abdul Jabbar, da notare la lunghezza delle gambe e l'assenza di tatuaggi.
Stavo volando verso il canestro pronto a schiacciare quando dal nulla ecco la maglia numero 32, silenzioso come un fantasma, con uno dei suoi trucchi Earvin "Magic" Johnson mi soffia la palla, mentre sono impietrito e cerco di capire come ha fatto lui si volta e mi sorride, ha gli occhi azzurri di mio zio e mi dice: “E secondo te indosso un orologio da 40 mila dollari per sapere che ore sono?”.

Il cronometro va a zero e la sirena segna la fine della partita, il pubblico è tutto in piedi ad applaudire.

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